Se gli exit-poll saranno confermati, l’esito del voto europeo promette impatti immediati sul rimpasto dell’organigramma Ue, primo e pesante dossier politico-istituzionale in agenda. Per questo i partiti “costituzionali” e i due Paesi-leader avevano messo da tempo sul tavolo uno schema di base: la presidenza della Commissione di Bruxelles allo spitzenkandidat tedesco del Ppe, Manfred Weber; la presidenza della Bce in scadenza a un francese (da scegliersi fra il governatore della Banque de France, François Villeroy de Galhau, il direttore generale del Fmi Christine Lagarde e Benoit Coeuré, membro uscente dell’esecutivo di Francoforte). Attorno a quest’ipotesi sarebbe stato poi sviluppato il risiko delle poltrone: da un lato la presidenza di un Europarlamento sempre più importante; quindi la presidenza del Consiglio Europeo e i “ministeri” chiave a Bruxelles (Antitrust, Affari economici, Alto rappresentante per la politica estera, in attesa dell’introduzione di un “ministro delle Finanze”).



Il piano non viene travolto dall’urto elettorale, ma è un fatto che entrambi i suoi sponsor principali – il cancelliere tedesco Angela Merkel e soprattutto il presidente francese Emmanuel Macron – ne sono usciti indeboliti. È una situazione che può perfino accelerare una dinamica di “arrocco”, ma le incognite sono numerose e intricate. Sul piano politico, il Ppe merkeliano registrerà un arretramento comunque netto a Strasburgo (forse una cinquantina di seggi, in parte perduti in Germania da Cdu-Csu, mentre l’“indesiderato” Viktor Orbán ha stravinto in Ungheria), come del resto il Pse. E se le due principali famiglie politiche europee assieme dominavano l’europarlamento uscente, oggi neppure una loro classica “grande coalizione”  potrebbe contare su una maggioranza numerica. 



A una “grande alleanza pro-euro” – che già ieri sera il Financial Times si augurava anche in funzione anti-Brexit – sarà sicuramente indispensabile l’apporto di Alde (lo “score” liberaldemocratico sembra l’unica vera vittoria del fronte “governativo” europeista). E al netto della sconfitta di En Marche! in Francia, proprio Alde ha speso per l’appuntamento elettorale un candidato di notevole spessore: la commissaria danese uscente all’Antitrust, Margrethe Vestager. 

Ma i liberali a Berlino sono all’opposizione, così come i Verdi, che hanno riportato una netta affermazione sia in Germania che a livello europeo. Entrambe le forze sono europeiste, ma che prezzi si accingono a chiedere (a Strasburgo, a Bruxelles, a Berlino) per appoggiare i leader acciaccati del tradizionale “asse carolingio”? Lo stesso Pse – nuovamente battuto in Germania e Francia e in crisi in Italia – potrebbe risentire delle crescenti tensioni che hanno accompagnato il progressivo ridimensionamento della Spd nella coalizione Merkel. I Socialisti & Democratici europei – sempre più attaccati da sinistra, ovunque, per la loro parabola centrista -sosterrebbero senza esitazioni una liberale rigorista del nord come Vestager alla successione di Jean Claude Juncker? O un popolare bavarese “perdente” e privo di pedigree come Weber?



La stessa partita Bce (forse la più importante in assoluto) si profila incerta. Proprio ieri il Financial Times ha acceso i fari sull’ipotesi che all’Italia – per la prima volta dalla nascita dell’euro – non venga riservato un seggio fra i sei dell’esecutivo Eurotower. Per la verità la prospettiva è molto credibile già dall’inizio del 2019: quando la guida della supervisione bancaria Bce è stata assegnata all’italiano Andrea Enria, fortemente voluto dal presidente uscente Mario Draghi (e non è mancato chi ha osservato come lo stesso banchiere italiano sia sembrato voler favorire tacitamente l’allontanamento dall’esecutivo Bce di un’Italia non più affidabile sul piano europeo).

Oggi in ogni caso i mercati – cioè la City senza pace per Brexit – non fanno mistero della loro apprensione sull’ipotesi che la crisi dell’Europa continentale consenta ai “falchi” tedeschi di imporre alla Merkel la designazione di un tedesco al timone dell’euro. Sarebbe invece più gradito – forse non solo a Londra, in uscita dalla Ue ma non dai mercati – “un nuovo Draghi”: un mediatore autorevole a tutto tondo (fra fronte rigorista e supporter degli stimoli monetari, fra politica monetaria e mercati, fra banca centrale e governi, fra Ue e Usa). 

Un identikit realistico sembra essere sulla carta quello Erkki Liikanen: finlandese, ministro socialdemocratico e poi governatore della banca centrale di Helsinki, ambasciatore a Bruxelles e membro in carica dell’esecutivo Bce, parecchio allineato con  Draghi. Ma è ovviamente prestissimo per capire se e come potrà entrare in un gioco a incastro che si annuncia complicatissimo e imprevedibile. E nel quale l’Italia potrebbe ritrovarsi con un solo commissario di medio peso a Bruxelles oltre ad Enria, mentre negli ultimi cinque anni ha potuto contare su Draghi, sullo stesso Enria all’Eba, su Federica Mogherini come “Mrs Pesc” e su Antonio Tajani sulla poltrona più alta a Strasburgo.