Il 2021 si è chiuso fra luci e ombre per l’asset management globale. I gestori professionali dei risparmi individuali e dei capitali istituzionali hanno visto aumentare ancora i mezzi loro affidati. Nei primi nove mesi il volume aggregato dei primi 500 operatori sfiorava già i 120 trilioni di dollari, in volo rispetto al superamento della soglia dei 100 trilioni, maturata nell’anno di esplosione della pandemia.
Il trend si riproduce fedelmente nella cifre italiane: a fine novembre l’Assogestioni segnalava un nuovo record di patrimonio gestito (2.574 miliardi di euro contro i 2.421 miliardi di fine 2020). Alla raccolta netta nei primi undici mesi (83 miliardi) si è aggiunta la creazione di valore da parte dei gestori: in un mercato reso volatile da una congiuntura complessa per il Covid ma anche per le incertezze geopolitiche. I saldi netti aggregati del settore incorporano però ovunque anche importanti deflussi: soprattutto nella seconda metà dell’anno. Incalzati dal riaccendersi dell’inflazione e dalla persistenza dei tassi zero, molto investitori grandi e piccoli hanno confermato il loro impegno fiducioso presso i gestori professionali, ma altri hanno mostrato crescente sfiducia nell’intermediazione degli investment manager: i cui titoli quotati sono infatti da tre anni sottovalutati dai listini azionari (a livello globale), al pari di quelle delle “sorelle” banche. Restano dunque contenute le attese dei mercati sulla capacità dei gestori di far guadagnare in Borsa – e quindi di guadagnare essi stessi – con prodotti e tecniche d’investimento correnti.
La pandemia preme dunque anche sulla finanza globale e la revisione al ribasso delle stime di crescita dei volumi gestiti dagli asset manager (che comunque dovrebbero superare i 150 trilioni di dollari a metà decennio) ne è solo un indicatore. Non meno significativa e articolata è l’evidente ricomposizione dei portafogli dei gestori. Rimangono importanti i canali tradizionali – incentrati sui fondi comuni d’investimento e altre gestioni collettive orientati ai titoli azionari ed obbligazionari quotati) – e cresce la domanda e l’offerta di Etf: strumenti d’investimento strutturati che replicano l’andamento di singoli indici. Quest’ultimo segmento era e in parte resta “l’asset management 2.0” concepito prima dello choc-Covid, in un’ottica ancora prevalentemente interna a una finanza autoreferenziale: di rapporto unidimensionale fra investitore e “industria del mercato”.
Meno scontata era invece la crescita – registrata con evidenza nel 2021 – degli investimenti nel comparto cosiddetto “private”: nei titoli di proprietà o debito emessi da imprese non quotate. Si tratta di un terreno già molto esteso ma coltivato finora solo da gestori specializzati e riservato a grandi investitori istituzionali: capaci di assumersi rischi elevati a fronte di pari attese di rendimento. Il “private equity” è già storicamente orientato alle “start up”, principalmente tecnologiche o biomediche: ma anch’esse principalmente già selezionate (l’hub naturale è stata la Silicon Valley, ultimamente affiancata dalla Tel Aviv Valley). La penuria di rendimenti assicurata dal mercato obbligazionario e l’alta volatilità di quelli azionari (soggetti a bolle) hanno spinto molti asset manager a intensificare l’impegno nel “private”: anche sotto l’abbrivio dello sviluppo dei parametri cosiddetti ESG (vincoli a investire in aziende attente all’ambiente, alla sostenibilità, alle buone prassi di governance). Il risultato oggettivo composito di questo processo è, in sintesi rozza, un aumento relativo dei mezzi messi a disposizione dall’asset management all’innovazione generata da imprese piccole e medie (250 miliardi di dollari nel mondo, il doppio rispetto al 2015, un terzo di quanto stimato nel 2025).
L’attenzione al gioco speculativo delle fusioni e acquisizioni rimane forte: il 2021 ha registrato un nuovo record (5,7 trilioni di operazioni annunciate), peraltro atteso allorché tutti i fattori di crisi economica da Covid spingono tutti i settori alla ristrutturazione. Ma anche al tavolo classico dell’asset management “1.0” (cresciuto nell’ultimo ventennio del secolo scorso) le ragioni dell’economia reale sembrano pesare di più: la cruna ESG non lascia passare facilmente operazioni solo “ridipinte di verde”. È invece naturalmente aperta verso quelle iniziative d’impresa che promettano rendimenti congrui perché imperniate su vantaggi competitivi reali, creati da una buona ricerca e da un management efficace.
Su un fronte e sull’altro l’Italia resta un grande “deposito di munizioni”, come dimostrano i 1.800 miliardi di liquidità parcheggiati nei conti bancari e postali. È anche un “parco d’impresa” molto popolato e vivace. Un’industria finanziaria diversa – ad esempio da quella che nel 1999 ha fatto dell’Italia il teatro della “madre di tutte le Opa” su Telecom – può senz’altro contribuire a innescare nuove spirali virtuose. È una delle molte scommesse di un 2022 largamente incognito, non solo in Italia.
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