Caro direttore,
nelle scorse settimane non sono stati pochi gli episodi di violenza che hanno visto giovani e giovanissimi come protagonisti, soprattutto nella Capitale: l’aggressione a un vigile urbano fuori da un bar all’ora dell’aperitivo, la festa proibita di studenti a piazza Bologna, le risse al Pincio di sabato pomeriggio con la partecipazione di un centinaio di ragazzini e alcuni pestaggi in pieno giorno all’interno delle stazioni della metropolitana. La stampa parla apertamente di un’escalation e collega tutti questi fatti all’intolleranza dei più giovani verso le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria.
In realtà le cose sono forse più complesse rispetto a come sono presentate: il dilagare del Covid-19, e le conseguenti misure di prevenzione adottate, sono stati il detonatore di un malessere più profondo e diffuso che attraversa trasversalmente tutta la generazione Z. Il ricorso alla violenza, le pulsioni ludopatiche legate alle scommesse sportive o alle estenuanti sessioni di gaming, le dipendenze da alcool o da sostanze stupefacenti, il fumo compulsivo, il crescente consumo di cocaina, la gestione pasticciata e tossica delle proprie immagini in rete, la sessualità fuori controllo e la balcanizzazione del tessuto sociale – con i ragazzi sempre più divisi in tribù all’insaputa dei genitori – hanno portato a una situazione che, nella società occidentale, si configura come la vera urgenza del nostro tempo.
La pandemia ha spostato la nostra percezione sociale: in un anno siamo passati dal considerarci alla fine di un’epoca, epigoni di un mondo, a comprendere come – in realtà – siamo all’alba di una nuova era, un nuovo inizio che nessuno ancora sa ben descrivere. Ci sono ignote le dinamiche economiche, politiche, produttive, ma anche comunicative, abitative e sociali, che contraddistingueranno il tratto di storia che oggi albeggia, ma non ci è sconosciuta la grammatica su cui esso va articolandosi: il predominio degli aggettivi sui sostantivi, la paura del complemento oggetto – per cui a noi oggi piace amare, ma facciamo fatica a dire chi o che cosa amiamo –, il prevalere della subordinazione sulla coordinazione, e il conseguente divampare del determinismo a scapito della solidarietà che scaturisce sempre dal riconoscerci implicati dagli stessi verbi e dalle stesse situazioni esistenziali.
Si delineano in questo modo due schieramenti generazionali profondamente diversi, fondati su due linguaggi lontanissimi che non si intercettano più. Chi riesce oggi a parlare ai nostri ragazzi? Chi riesce a confrontarsi col loro cuore? Che parole essi ascoltano per le loro infinite ferite e povertà? Ingabbiati in schemi legati al successo e ai risultati, sostenuti solo da un esasperato sentimentalismo o da un insensato protezionismo parentale, figli di una generazione smarrita e fragile, i giovani degli anni 20 si sono trovati improvvisamente senza interlocutori riconosciuti e affidabili. Non lo sono gli adulti, non lo è la politica, non lo è più neppure il mondo dell’associazionismo e non lo è nemmeno la Chiesa.
Stiamo perdendo un’intera generazione, con una classe dirigente che – avida di denari con cui rivendicare le proprie torsioni populiste – teme perfino di nominare in modo corretto il piano di interventi europei post-pandemici: non Recovery Fund, come è comunemente chiamato in Italia, ma Next Generation Eu, una strategia che guarda al futuro e alla prossima generazione come il vero tesoro da salvare per proteggere l’Europa e il mondo dal flagello di un collasso che ad oggi sembra inevitabile.
Siamo di fronte a una chiamata per tutti, ma in particolare per la Chiesa cattolica, che – dopo decenni di campi estivi, vacanze, catechismo, ora di religione e dopo scuola, dopo decenni di giornate mondiali della gioventù e di folle oceaniche ad ogni sospiro papale – si ritrova oggi una generazione intera vaccinata dal cristianesimo, impermeabile alle parole d’ordine della fede, indifferente alle polemiche sulla nascita di Gesù Bambino, già molto oltre il cristianesimo in tema di sessualità e diritti, scandalizzata dall’usura, dal potere e dall’arrogante lussuria di alcuni uomini delle istituzioni che sono diventati l’immagine di una religione che non è neppure più odiata, ma semplicemente dimenticata, una religione che ha deluso il cuore, suscitando nei più giovani uno dei più difficili sentimenti da superare, e abbandonato il campo della vita vera per sposare quello dell’ideologia, del moralismo, dell’ateismo parrocchiale, senza una proposta autentica e credibile per l’esistenza.
Ma di tutto questo, a tutti i livelli, non c’è traccia: schiavi dell’incantesimo dell’Unam Sanctam, di una Chiesa che non può fare errori perché è sempre dalla parte della luce, non troviamo oggi traccia di autocritica o di dibattito interno su un fallimento che è nei fatti e che qualche sussidio di preghiera per l’Avvento o la Quaresima non può mitigare.
Eppure c’è tanta fede nelle ferite, nei silenzi e nella spavalderia di questi ragazzi, c’è tanta fede che Dio ancora suscita tra le borgate romane o le periferie milanesi, nei mille villaggi del nostro paese o lungo le coste del Sud. Dio non ha dimenticato l’umanità. E ai Suoi occhi non c’è niente di più prezioso della giovinezza: possiamo solo immaginare con che desiderio Egli scruti i cuori di queste giovani vite così affamate d’amore!
Eppure noi siamo altrove, così tanto preoccupati del vestito da indossare per presentarci in pubblico da perdere di vista il nostro unico e vero scopo di credenti e di uomini: seguirLo, non perderLo d’occhio. Senza sindacare, senza insegnarGli a fare il Suo mestiere, ma ancora grati e commossi delle infinite sorprese dello Spirito che ci chiamano a cambiare e a guardare al futuro con speranza e umiltà.
Come diceva Boezio, la scelta oggi si fa impellente: possiamo passare i nostri giorni a vegliare una cultura morente, narrandone gesta e imprese, oppure possiamo scegliere di fare la fatica di essere levatrici di una cultura nascente. Una cultura fatta di misericordia e obbedienza, una cultura in cui – misteriosamente – a nascere nelle sperdute grotte di questo mondo sia ancora Lui, il Bambino di Betlemme che il nostro cuore aspetta.