Stiamo ai fatti: c’è un solo dato da cui è necessario partire per un ragionamento sui ballottaggi, ed è l’astensionismo. Quando a votare sono solamente quattro elettori su dieci, non è facile trarre lezioni nazionali da una sfida che ha 65 sfaccettature differenti. Tante quante erano i comuni al voto ieri.
Canta vittoria il Pd, e ne ha certo ragioni. Aver espugnato la roccaforte di Verona, dopo 20 anni, fa esultare il Nazareno. E a far da corona le affermazioni di Piacenza, Parma e Catanzaro. Nel capoluogo calabrese e ad Alessandria il campo largo, cioè l’alleanza con i 5 Stelle, ha funzionato. A Viterbo e a Frosinone no. E questa è certo una brutta notizia per Zingaretti, che il campo largo lo sta sperimentando nella giunta della Regione Lazio e vuole riproporlo a primavera, quando il suo mandato scadrà.
La ricetta non è quindi per niente taumaturgica, e consolidarla non sarà facile, vista la scissione operata da Di Maio nella galassia pentastellata, con strascico di polemiche e di accuse. Non è detto che il ministro degli Esteri e l’ex premier siano capaci di convincere nell’ambito della stessa alleanza. Enrico Letta e i suoi devono prepararsi a lunghe trattative, che coinvolgono anche Renzi e Calenda. L’esito, cioè mettere tutti insieme, non è affatto scontato.
Sull’opposto versante, doccia fredda sugli entusiasmi del primo turno. Se un dato balza agli occhi è l’incapacità di vincere ovunque il centrodestra sia stato incapace di trovare una sintesi. Catanzaro, Parma e Verona sono sconfitte che bruciano, perché al contrario al primo turno erano arrivate vittorie nette proprio in forza dell’unità mostrata agli elettori, Palermo e Genova su tutte.
Ma l’analisi deve spingersi anche più in là: in questo turno amministrativo si saggiava anche la capacità di Giorgia Meloni di farsi elemento trainante della coalizione moderata, così come la sua aspirazione di sbarcare al Nord. In questo senso la sconfitta di Verona brucia due volte. Il tocco magico della leader di Fratelli d’Italia ha funzionato al contrario. Non è riuscita a trasformare un candidato modesto, e che ha governato maluccio, da piombo in oro. Non è riuscita neppure a imporgli al ballottaggio quell’apparentamento con il civico/ex leghista Tosi che probabilmente avrebbe sbarrato la strada della vittoria all’ex calciatore Damiano Tommasi. E che tirasse aria cattiva a Verona si era capito sin da domenica mattina, con Salvini che accusava Sboarina di errori clamorosi. Il dualismo fra i due rischia di essere paralizzante. Per via delle divisioni la Meloni ha perso anche Viterbo, dove non vince il campo largo ma un candidato civico, mentre a Como il candidato sindaco della Meloni appoggiato dal centrodestra unito non è andato al ballottaggio; a Monza il forzista Allevi sostenuto da tutto il centrodestra non viene rieletto. Va meglio a Roberto Di Stefano (Lega) che per la seconda volta vince a Sesto San Giovanni.
Di certo, dalla campagna del Nord la Meloni esce ridimensionata nelle sue velleità di leadership. Serve unità per convincere gli elettori, ma servono anche candidati credibili. Chi intende guidare il centrodestra, e magari proporsi per Palazzo Chigi, deve saper fare sintesi e schierare una classe dirigente credibile agli occhi degli elettori.
Da qui alle elezioni politiche è previsto un solo appuntamento elettorale di rilievo, le regionali siciliane. Entrambe le coalizioni sono in ritardo sulla definizione delle candidature e della proposta politica. Il campo largo si conterà nelle primarie il 23 di luglio, ma i 5 Stelle, che nell’isola avevano una delle loro roccaforti, ancora non hanno deciso chi schierare. Il centrodestra, se vogliamo, sta pure peggio, paralizzato com’è da settimane sul nome del presidente uscente Musumeci. La Meloni lo difende, invocando la regola della ricandidatura degli uscenti, ma questo si porta in automatico il niet alla Moratti, che si è autoproposta come alternativa a Fontana in Lombardia. Il centrodestra, che si era sentito la vittoria in pugno dopo il primo turno del 12 giugno, deve fare attenzione. Se dovesse rimanere preda delle proprie guerre intestine, correrebbe il rischio di vedere sfumare una vittoria che sentiva già in tasca. Con l’aggravante di elementi di politica internazionale (Europa, Ucraina, ecc.) spesso sottovalutati nella loro ricaduta in politica interna.
Per raddrizzare la barra c’è poco tempo. Le elezioni della primavera prossima appaiono oggi in prospettiva molto più incerte di quanto non si potesse immaginare anche solo due settimane fa.
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