C’è un dato certo in questa tornata elettorale, ed è il fragoroso fallimento dei referendum sulla giustizia. Poi si entra solo in ipotesi, basate su exit poll relativi ad alcune grandi città, che delineano tendenze da verificare nel pomeriggio di oggi con i dati reali.

Il mancato quorum era largamente annunciato, ma non in queste dimensioni, che a conti fatti potrebbero stabilire il record negativo di partecipazione per le consultazioni referendarie, che fu del 23,31% per i quesiti del 2009 sulla legge elettorale. Paga un prezzo politico maggiore chi più aveva cavalcato la questione, cioè la Lega di Salvini, anche perché non è che fra chi ha votato sia stato un diluvio di Sì. Nemmeno questo platonico successo può essere sbandierato. Cambiare la giustizia nel nostro Paese rimane impresa ardua, e necessita di maggioranze complicate da costruire, visto che il Pd si rifiuta di agire, anzi giudica il flop del referendum come la fine della guerra dei trent’anni contro la magistratura. 



Di sicuro per riformare la giustizia lo strumento deve essere differente da quello referendario, istituto in piena crisi, che necessita di una profonda riflessione, tanto sulle regole che lo presiedono, quanto dell’uso che se ne fa. Per capirci: se i quesiti sono iper-tecnici, viene difficile appassionare gli elettori. 



Salvini può probabilmente consolarsi con le prime indicazioni delle amministrative, in particolare le probabili affermazioni al primo turno di Marco Bucci a Genova e di Roberto Lagalla a Palermo. Se confermato, il dato di aver strappato la quinta città d’Italia al centrosinistra, dopo l’interminabile regno di Leoluca Orlando, non è cosa da poco, al netto dell’incredibile caos nelle operazioni di voto che è andato in scena nel capoluogo siciliano.

Confortante per il centrodestra è anche il buon risultato che si delinea all’Aquila, con Pierluigi Biondi a cavallo della maggioranza assoluta. Al contrario, da Verona, Parma e Catanzaro, secondo gli exit poll Rai, esce confermata l’aurea regola che divisi si perde. Clamoroso si delinea lo scenario della città scaligera, dove l’ex calciatore Damiano Tommasi attende di sapere se al ballottaggio a sfidarlo sarà il primo cittadino uscente Federico Sboarina, sostenuto da Fratelli d’Italia e Lega, o l’ex sindaco Flavio Tosi, appoggiato da Forza Italia. E nelle altre due città senza una prospettiva di riunificazione delle forze le chanches di vittoria al ballottaggio sono tutte dalla parte del centrosinistra.



Per Enrico Letta Palermo era già data per persa, controbilanciata dalla prospettiva di strappare allo schieramento avversario la roccaforte Verona. Piuttosto, al Nazareno farebbero bene a interrogarsi sui propri compagni di strada. I 5 Stelle sembrano essere evaporati quasi ovunque. Poche liste presentate e risultati davvero modesti. Indispensabile capire quale possa essere il loro reale valore in termini di consensi, in vista delle elezioni politiche, del peso da assegnare ai grillini nelle candidature nei collegi uninominali. Difficile, infatti, che la legge elettorale venga modificata. 

Al contrario, i centristi di Calenda (e in alcuni casi di Renzi) quando scelgono di differenziarsi fanno male. Il discreto risultato di Ferrandelli a Palermo condiziona quello del portabandiera del centrosinistra Miceli. Lo stesso per Di Benedetto all’Aquila, ai danni di Stefania Pezzopane. Il nodo per Letta rimane come conciliare nello stesso “campo largo” quello che conciliabile non sembra, e cioè la coesistenza dei centristi e dei grillini, che si lanciano anatemi reciproci. 

Da qui alle elezioni politiche mancano dagli otto ai dieci mesi. In mezzo, ragionevolmente, solo le regionali siciliane fissate per l’autunno. Per gli schieramenti il tempo per prepararsi è poco. Il centrodestra deve trovare compattezza e dare l’immagine di una coalizione in grado di governare il Paese, senza dividersi il giorno dopo il voto. La concorrenza della Meloni a Salvini non aiuta, trasmette una immagine di eccessiva rissosità. 

In parallelo, il centrosinistra deve cementarsi e allargarsi. Il consenso del Pd da solo non basta. E lavorare per una riedizione della solidarietà nazionale targata Draghi pare una prospettiva politica piuttosto debole. Non si può governare con perenni formule di emergenza. 

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