Titolo principale del sito di Repubblica ieri sera: “Comunali, crollo Lega e M5s. Letta: Pd primo partito”. Idem il Corriere. La Stampa: “Meloni batte Salvini”. I riflettori della grande stampa sono puntati sui guai del centrodestra, che pure – per dirne una – ha già vinto al primo turno in tre capoluoghi di regione su quattro (Genova, Palermo e L’Aquila). Stando ai numeri reali, il risultato finale di questo primo turno dice 7 città conquistate dal centrodestra e solo 3 città (Lodi, Padova, Taranto) dal centrosinistra. A spoglio ancora in corso si delinea una narrazione di queste elezioni che perde per strada una serie di fatti che è meglio ricordare, in ordine sparso.
Il famoso “campo largo” di Enrico Letta assomiglia a un deserto. Il segretario del Pd deve ringraziare l’eco mediatica concessa a Damiano Tommasi che a Verona ha toccato il 40%: a parte la riconferma di Sergio Giordani a Padova, per la sinistra è l’unica soddisfazione di questa tornata. Ma è anche vero quello che ha fatto notare l’avversario di Tommasi, Federico Sboarina: al 40% la sinistra più il M5s hanno fatto il pieno. E altrove quel dato lo vedono con il binocolo, a cominciare da Genova, patria di Beppe Grillo. A Parma Michele Guerra è al 44%, ma lui è un uomo di Federico Pizzarotti. Lo stesso Tommasi si è rifiutato di incontrare in pubblico Letta e Giuseppe Conte nei loro comizi a Verona. La deputata Pd ed ex senatrice Stefania Pezzopane era un nome forte per L’Aquila, eppure è arrivata terza, battuta perfino dal civico Americo Di Benedetto. Letta si è fatto vivo soltanto ieri sera dopo aver mandato avanti per tutto il giorno una seconda linea come Francesco Boccia, responsabile enti locali, a mettere la faccia su un risultato poco esaltante. Non pervenuto Conte, così come Matteo Renzi e Carlo Calenda.
Di contro, il centrodestra quando è unito vince già al primo turno. E quando invece si divide se la gioca, certamente anche con il rischio di perdere. Non sarà facile, per esempio, per Sboarina ricucire le divisioni interne covate per anni ed esplose negli ultimi mesi e convincere gli elettori del centrodestra veronese a tornare a votare: il ballottaggio non ha mai visto i moderati correre alle urne.
Ancora. È vero, c’è una competizione all’ultima scheda tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia; ma nelle piccole realtà pesano molto le liste civiche che tolgono consensi ai partiti maggiori. Proiettare i risultati locali per ipotizzare “crolli” nazionali è quantomeno arbitrario. I sindaci catalizzano molti voti, attirano preferenze sul loro nome; in più, le loro liste personali (come del resto già accade con alcuni governatori di regione come Luca Zaia in Veneto) spesso drenano voti ai loro stessi partiti “ufficiali” senza che ciò comporti scissioni neppure latenti.
La realtà, insomma, è più complessa di come la si vuole dipingere. Il voto di domenica non è stato negativo per il centrodestra e la competizione interna non sembra una lotta fratricida. Del resto, il Pd ha tutto l’interesse a mascherare la sparizione del M5s che doveva garantirgli un’iniezione di suffragi dopo gli addii di Calenda e Renzi, e prima ancora di quanti si sono raccolti attorno a Leu. L’egemonia del Pd è a macchia di leopardo e la coalizione “larga” assomiglia più al partito unico senza i numeri di pochi anni fa. Ma cavalcare le divisioni e le debolezze del centrodestra, che pure non mancano, serve soprattutto a orientare il dibattito sulla legge elettorale pilotandolo verso il proporzionale, l’unico modo per fronteggiare gli avversari alle prossime elezioni politiche. Magari contando su alcuni settori di Forza Italia.
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