Risultati elezioni Emilia-Romagna. Al Nazareno hanno tirato un grosso sospiro di sollievo quando la vittoria di Stefano Bonaccini ha cominciato a stagliarsi con chiarezza all’orizzonte. Il fortino emiliano ha tremato, ma ha resistito all’ondata leghista. E grazie a questo Salvini è stato sconfitto, e il governo è in salvo, almeno per il momento.
Ma le menti più lucide dello stato maggiore democratico stanno già interrogandosi sulla genesi di questa vittoria, che è molto particolare, e foriera di conseguenze sul livello nazionale. Bonaccini l’ha spuntata mettendo da parte il partito nazionale. Ha fatto sparire il simbolo del Pd dai suoi manifesti, e ha fatto di tutto perché i leaders nazionali si facessero vedere il meno possibile dalle sue parti.
Declinando la sfida tutta in chiave locale e rivendicando i risultati della sua amministrazione, il governatore uscente ha guadagnato la riconferma. Più che la presenza di Zingaretti gli ha giovato la mobilitazione provocata dalle sardine. Di conseguenza, la sua vittoria per la leadership democratica è una buona notizia a metà. Sarà difficile ignorare il richiamo che sale forte dai territori. Bonaccini a Bologna, come Beppe Sala a Milano. Ma anche come Michele Emiliano a Bari e Vincenzo De Luca a Napoli, due governatori fortemente autonomi dal centro, che andranno a rinnovo nella tarda primavera, e che da oggi nessuno a Roma potrà azzardarsi a mettere in discussione.
Da questa periferia sembra destinata a crescere la pressione per scelte di governo meno balbettanti rispetto a quelle viste sin qui. Infrastrutture e lavoro sono in cima alla lista, quei temi che da sempre vedono gli alleati di governo del Movimento 5 Stelle nel ruolo di frenatori. Si pensi alle crisi aziendali come l’Ilva, o a scelte toste, come l’alta velocità Bari-Napoli, o alle richieste degli industriali del Nord, lombardi ed emiliani, delusi dall’immobilismo del governo.
Insieme a Salvini, i grandi sconfitti di questa tornata elettorale sono proprio i 5 Stelle, condannati a una sostanziale irrilevanza tanto in Emilia, quanto in Calabria. Nicola Zingaretti lo ha detto chiaro nel primo commento a caldo: la fase del tripolarismo che si era aperta con il voto del 4 marzo di due anni fa si è definitivamente chiusa. E se il sistema politico italiano ritorna al bipolarismo, i grillini non hanno scelta. Non possono che contribuire alla costruzione di una “alternativa al campo delle destre”, di cui il Pd “è il pilastro fondamentale”. Il Pd, e non il Movimento 5 Stelle. E Zingaretti conclude con l’augurio che i grillini prendano atto di questo stato di cose.
Parole durissime, anche se dette con il sorriso sulle labbra, e che forse possono anche risultare non del tutto sgradite a Giuseppe Conte. Parole che, invece, saranno difficili da digerire per il gruppo dirigente pentastellato, colto per di più in mezzo al guado di un processo di ristrutturazione apertosi con il passo indietro di Luigi Di Maio. I 5 Stelle hanno poco tempo per reagire, un mese o poco più, da qui agli Stati generali di inizio marzo. E devono evitare di perdere altri pezzi, per non mettere a rischio un governo che rappresenta oggi l’unica ancora di salvezza. Se fra le fila del pattuglione dei parlamentari grillini, tuttora il più numeroso, si dovesse diffondere il panico, tutto diventerebbe possibile, compresa l’implosione di quella che due anni fa era la prima forza politica del paese. Basterebbe che dieci senatori passassero al centrodestra per provocare uno smottamento decisivo.
Di questa debolezza grande devono tener conto tanto il presidente del Consiglio, quanto i democratici. Di fronte a un vuoto politico, il premier potrebbe riprendere in mano l’idea di un partito tutto suo, pur di frenare l’emorragia. Ma anche Zingaretti e i suoi dovranno fare attenzione. I rapporti di forza in Parlamento non sono cambiati, e vedono gli alleati grillini ancora numericamente molto più forti. Il forte rilancio dell’azione di governo che nella notte elettorale i democratici sono tornati a chiedere al premier su tasse, lavoro, scuola e scossa all’economia non deve spaventare troppo gli alleati. Volere strafare potrebbe essere un errore di cui doversi pentire.