È bene stemperare il clima elettorale elettrizzato e l’eccessiva adrenalina intorno all’esito di queste elezioni regionali. Dopo tutto non stiamo parlando di una vera “tornata” elettorale: si vota solo in Sardegna, una regione con 1 milione di abitanti dove avremo, al massimo, poco più di mezzo milione di votanti (alle politiche del 25 settembre 2022 ha votato il 53,17%, pari a 713.789 votanti su 1.342.551 aventi diritto). Poco più di due collegi centrali della città di Milano: a “Bande Nere” e “Buenos Aires” alle ultime politiche sono andati al seggio 436mila elettori; a Sesto S. Giovanni in 264mila. Diciamo che la grande attenzione mediatica può essere in parte giustificata per il fatto che questa votazione è l’anticamera di una serie di tornate elettorali, regionali e comunali, che ci avvicinano alle elezioni europee di giugno. È il primo ballo che apre le danze. E come tale porta a galla vecchi problemi, contraddizioni e rancori che bollono nel pentolone di entrambi gli schieramenti.



A sinistra siamo rimasti alla stessa situazione di due anni fa. Non è ancora chiaro se Pd e M5s vogliano fidanzarsi. Se il loro possa trasformarsi in un matrimonio d’amore oppure rimanere una semplice unione di interessi, un patto di potere contro il nemico. Ma che respiro avrebbe una tale alleanza e quanto durerebbe? Abbiamo già visto che occorre molto di più. E poi siamo al solito rompicapo del “campo largo”, che ha già mietuto illustri vittime, come un certo Enrico Letta. Quello sardo, ad essere generosi, oggi è un “mezzo campo” che contiene solo Pd, 5 Stelle e verdi. Gli altri aspiranti azionisti del campo largo, Renzi e Calenda in testa, sostengono Soru insieme a Rifondazione Comunista. E si sa che per i due “centristi” il campo largo non potrà mai contemplare la presenza di Giuseppe Conte.



Una probabile vittoria della Todde non risolverà quindi i problemi del centrosinistra, ma potrebbe suggerire a Schlein e Conte di riproporre il modello-Sardegna nelle prossime elezioni regionali, giusto per tamponare in qualche modo l’avanzata del centrodestra. Per discorsi più seri si dovrà attendere…

Nel centrodestra la situazione è apparentemente più semplice e definita ma altrettanto problematica. La leadership di Giorgia Meloni è chiara e incontestabile, suffragata da numeri più che lusinghieri. Il problema però è un altro ed è pure molto serio: questa leadership numerica non riesce a trasformarsi in coalizione. La premier non considera la coalizione un valore e invece che mettere pazientemente insieme gli alleati cerca di trascinarli a forza dietro di sé. Ne è un esempio la forzatura che ha esercitato proprio in Sardegna, sradicando il leghista Solinas dalla ricandidatura per imporre Truzzu, un suo uomo.



Ma che senso ha per una leader a capo di un partito del 30% andare a fare una tale forzatura in una piccola Regione, col risultato di mortificare un alleato e di creare alta tensione a vantaggio dello schieramento avversario? Oltretutto Solinas avrebbe corso per il suo secondo mandato, e si sa che un presidente uscente parte sempre dall’1 a 0 in una competizione elettorale.

Pare che la Meloni abbia voluto fare come quei genitori risoluti che decidono di mettere in riga, fin da piccoli, i propri figli scalmanati, facendo loro capire quali sono le regole da rispettare e chi è che comanda. Vedremo se il risultato delle urne condurrà i protagonisti del centrodestra a più miti consigli, magari ricordando il teorema-Berlusconi: il leader di una coalizione è generoso, inclusivo e valorizza, come un capofamiglia che sa ascoltare le aspirazioni dei propri figli. Per fare il bene e gli interessi di tutti.

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