Se l’esperimento giallorosso doveva mostrare i suoi primi germogli in Umbria, dal cuore verde d’Italia viene una bocciatura senza appello. Gli elettori umbri sono andati a votare in massa (l’affluenza alle urne segna un eloquente +10% rispetto alle precedenti regionali), e hanno emesso una condanna senza appello, oltre 20 punti di vantaggio per il centrodestra. La foto di Narni ha portato malissimo: non è affatto piaciuta.
E si conferma una regola aurea della politica italiana: mai nella storia repubblicana un’alleanza fatta a tavolino ha dato un risultato superiore ai suoi addendi. Basti pensare al Fronte del 1948, al Partito socialista unitario vent’anni dopo, o alle liste comuni fra liberali e repubblicani negli anni Settanta. Anche in Umbria Bianconi è rimasto sotto la somma di Pd e 5 Stelle alle ultime europee. Unica eccezione a questa regola aurea, che lo stesso voto umbro conferma, il centrodestra, che si conferma sentito più dagli elettori che dai suoi stessi vertici. E trionfa oggi sotto la guida di Salvini, così come sino a qualche anno fa avveniva con la leadership di Berlusconi. Al contrario, il popolo del centrodestra, si è visto anche due settimane fa a Piazza San Giovanni, è solido più che mai.
Intendiamoci: non cadrà il governo Conte per il voto della piccola Umbria, che non è affatto l’Ohio. Ma Di Maio e Zingaretti dovranno rispondere a una domanda chiave: è ancora proponibile trasformare la convergenza giallorossa in un’alleanza organica? Per entrambi la risposta è difficile e tendenzialmente negativa.
Per Zingaretti, ad esempio, l’abbraccio con i 5 Stelle si rivela piombo nelle ali rispetto al disegno di creare una coalizione competitiva con il centrodestra. In Umbria il Pd aveva raccolto il 24% nelle ultime europee (era il 49,2% nelle europee del 2014). Il crollo è stato verticale, e gli scandali relativi alla sanità della Regione non bastano a spiegare la débâcle di ieri, un risultato intorno al 20%. Con il fiato sul collo di Renzi e della sua Italia viva, contrari allo schema giallorosso, Zingaretti non può permettersi di replicare questo patto civico nelle prossime sfide elettorali, a gennaio Emilia e Calabria, a primavera Liguria, Veneto, Campania e Puglia. Meglio soli, che male accompagnati, visto anche che i governatori uscenti, Bonaccini, De Luca, Emiliano non hanno alcuna intenzione di farsi da parte, come invece avrebbero preteso i pentastellati per siglare nuovi patti civici.
Ma se Atene piange, Sparta non ride. La situazione in casa 5 Stelle è molto peggio, una polveriera pronta a esplodere. C’è la stessa leadership di Di Maio in discussione dopo questa batosta. Scivolare sotto il 10% vuol dire finire preda di una profonda crisi d’identità. Si intuisce una domanda di fondo fra l’elettorato 5 Stelle, relativa all’essere diventati parte del palazzo, perdendo la carica antisistema che ne aveva spinto l’affermazione. Tirare a campare, diventando un partitino satellite del Pd, o rischiare il tutto per tutto, rompendo con il Pd e perdendo le poltrone? In questo dilemma il Movimento rischia di esplodere e finire in pezzi.
Sino a gennaio comunque è probabile che la navigazione del governo proseguirà, pur tra polemiche e imboscate, con Renzi nei panni di un Ghino di Tacco del terzo millennio. Il 26 gennaio il voto per l’Emilia-Romagna diventerà la vera battaglia di Stalingrado: se Stalingrado resiste, il Pd può immaginare di risalire la china, come i sovietici nella seconda guerra mondiale. Se Stalingrado dovesse cadere, per il governo suonerebbe la campana a morto, come minimo per il presidente del Consiglio.
Nella notte perugina di festa per il centrodestra, c’è però un dato che dovrebbe consigliare cautela anche al centrodestra. È il sorpasso di Fratelli d’Italia su una Forza Italia sempre più debole. Fra le fila degli azzurri questo viale del tramonto potrebbe fare scattare il definitivo rompete le righe. Un fuggi fuggi in tutte le direzioni, qualcuno verso la Lega, ma probabilmente parecchi anche verso l’area renziana. Poca roba in termine di consensi, ma movimenti potenzialmente significativi in parlamento, dove qualche berlusconiano potrebbe finire per puntellare il governo, l’attuale o uno senza Conte. Salvini farebbe bene a tenerne conto: se vuole tornare presto alle urne deve scommettere sullo sfaldarsi del rassemblement giallorosso, senza che pezzi del centrodestra vadano a puntellarlo.