Ursula von der Leyen ha rotto il silenzio ancor prima che le urne fossero chiuse in Paesi come Francia e Italia. Ma era evidentemente troppo importante per la presidente tedesca della Commissione Ue uscente intestarsi subito la netta vittoria in queste elezioni europee 2024 assegnata dagli exit polls alla Cdu/Csu in Germania; e soprattutto le prime proiezioni che hanno confermato il Ppe come primo partito nel nuovo europarlamento: addirittura in progresso, tale da distanziare i socialdemocratici come seconda forza. “Ursula” – candidata di punta del Ppe – si è quindi presentata ai media alla stregua di una premier ricandidata che abbia ottenuto dall’elettorato il via libera per un secondo mandato.
Non c’è dubbio che lo scenario principale al vaglio nei giorni scorsi di 400 milioni di elettori europei sia stato questo e l’esito pare ora profilare un “Von der Leyen 2” per i prossimi cinque anni a Bruxelles. Però, i però non mancano. E il più importante sembra riguardare lo scossone portato dall’euro-voto in Germania e il suo impatto sul ridisegno della governance Ue in programma fra un mese.
Von der Leyen stessa è emersa a sorpresa – cinque anni fa – dopo un risultato elettorale relativamente favorevole a livello Ue per il Ppe, che aveva lanciato come spitzenkandidat il cristiano-sociale tedesco Manfred Weber. Ma non bastò perché i capi di Stato e di governo dei Ventisette accogliessero per la prima volta il principio secondo cui almeno il presidente dell’esecutivo Ue fosse un europarlamentare eletto. E soprattutto: von der Leyen non venne proposta dal cancelliere tedesco Angela Merkel, di cui pure “Ursula” era ministro e collega di partito. Il suo nome venne fatto dal presidente francese Emmanuel Macron (liberaldemocratico) e Merkel dovette astenersi: la “cancelliera d’Europa” fu stoppata dall’Spd, partner di coalizione a Berlino, contrario all’ascesa a Bruxelles di una leader tedesca cristiano-democratica di tendenza conservatrice.
Fra qualche giorno al Consiglio Ue la Germania sarà rappresentata da Olaf Scholz, l’allora vice socialdemocratico della Merkel. Ma il cancelliere di oggi non ha neppure un briciolo dell’autorevolezza che rimaneva ad “Angela” nel suo crepuscolo. Né manca chi pronostica addirittura una crisi di governo a Berlino all’indomani di un euro-voto in cui l’Spd ha visto sostanzialmente dimezzati i consensi rispetto alle politiche 2021, doppiato da Cdu-Csu e superato perfino dalla destra estremista di AfD. Non molto meglio hanno fatto i due partner di coalizione: anzitutto i verdi e poi i liberaldemocratici. Su questo sfondo la “vittoria” di von der Leyen non appare una garanzia scontata per il rimpasto a Bruxelles.
Neppure la rimonta prepotente della Cdu appare una garanzia automatica per le prospettive di “von der Leyen 2” a Bruxelles. Il nuovo leader cristiano-democratico Friederich Merz ha impostato la riscossa del partito (sconfitto nel 2021) con la priorità di rompere con il lunghissimo “regno” di Merkel, rapidamente archiviato in patria dopo lo showdown russo-ucraino. E von der Leyen appartiene a quell’epoca: mentre il “nuovo” Merz sembra marciare autonomamente verso una vittoria elettorale fra poco più di un anno in Germania.
Lo stesso Macron – battuto ieri in Francia dalla destra lepenista – appare più che un’“anatra azzoppata”. La decisione di sciogliere l’Assemblea nazionale a tamburo battente sui primi exit polls è parsa una mossa estrema: un colpo di reni a evitare che un primo incidente parlamentare per il governo Attal mettesse in discussione lo stesso Eliseo (dove Macron può contare teoricamente su altri tre anni di mandato). E al di là della scommessa politica interna (le elezioni anticipate come referendum sullo stesso Macron, preteso alfiere della “democrazia europea” contro i populismi), il presidente francese difficilmente potrà recitare da kingmaker europeo, lo stesso che nel 2019 potè issare Christine Lagarde al vertice Bce.
“Abbiamo fermato l’estremismo”: sono state le prime parole di von der Leyen, poco dopo gli exit polls tedeschi e prima di quelli francesi e italiani. Non c’è dubbio che abbia voluto additare anzitutto ai suoi elettori connazionali il crollo di tutti e tre i partiti della maggioranza rossoverde contro AfD e il ruolo di argine “democratico” riassunto da Cdu-Csu. Vi sono poche incertezze anche sul fatto che, quando le cifre saranno tutte definite, Ursula avvierà le sue personali consultazioni a partire dalla “coalizione storica” che da Strasburgo ha sostenuto la Commissione uscente e tutte quelle precedenti: popolari, socialdemocratici e liberali, con l’aggiunta recente dei verdi. Le prime proiezioni assegnano tuttora un’indiscutibile maggioranza numerica ai quattro partiti. Ma già la stessa von der Leyen ha provato sulla sua pelle quanto la doppia matrice della politica Ue (gruppi parlamentari e governi nazionali) sia complessa e insidiosa: cinque anni fa la presidente designata ha raccolto a Strasburgo una fiducia risicata, dovendo fare i conti con larghe defezioni socialdemocratiche e verdi e ricorrendo al puntello d’occasione di forze “non europeiste” come i pentastellati italiani (con Giuseppe Conte premier). Si tratta di uno scenario ricco di rischi ma non privo di opportunità.
Fra queste seconde – per il cantiere “Ursula 2” – vi è l’allargamento della maggioranza, anzitutto verso Ecr. È il partito della destra conservatrice e riformista che ha il suo leader in Giorgia Meloni, premier italiano, che ha agevolmente confermato per FdI alle europee lo score del voto politico nazionale del 2022. Il confronto fra von der Leyen e Meloni è in corso da tempo e sembra poter essere ora incoraggiato dalla macro-tendenza dell’elettorato europeo verso destra. Non è solo una prospettiva tattica: von der Leyen è la prima a sapere che l’agenda europea andrà riscritta a fondo, con netti cambi di rotta rispetto al mainstream dell’ultimo decennio (basti pensare alla transizione verde). Ed è ovviamente un cammino che richiede il massimo della condivisione fra governi nazionali e forze politiche a Strasburgo.
Non è stato un caso che negli ultimi giorni alcuni leader – primo fra tutti Scholz – abbiano tentato di sbarrare preventivamente la strada a riassetti radicali della politica europea. Ma il cancelliere tedesco e il presidente francese – appena una settimana fa, in una sorta di comizio finale congiunto – non hanno fatto altro che arroccarsi sotto il vecchio architrave carolingio dell’originaria Europa post-bellica. Stessa “narrazione” – da parte di Macron – sulle spiagge della Normandia, con il presidente americano Joe Biden, nell’immediata vigilia del voto. Che invece ha decretato una sonora sconfitta per Macron e Scholz: non senza qualche cattivo presagio anche per Biden, a cinque mesi dalle presidenziali.
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