C’è un vincitore annunciato di queste elezioni comunali, anche se solo i voti veri potranno confermare le sensazioni della viglia. Più per demerito altrui che per meriti propri è il Pd il grande favorito. A Milano e a Napoli potrebbe farcela al primo turno, a Bologna sarebbe strano se non accadesse. A Torino e a Roma, qualora il ballottaggio fosse con i candidati del centrodestra, Lo Russo e Gualtieri partirebbero con i favori del pronostico. Il 5-0, insomma sembra a portata di mano, anche se furbescamente dal Nazareno si fa di tutto per abbassare l’asticella delle aspettative.



Attenzione, però, perché non è tutto oro quel che luccica. In primo luogo nessuna delle cinque maggiori città è oggi guidata dal centrodestra, cui quindi basterebbe vincere a Torino, la sfida più incerta, per potersi dire soddisfatto. E questo perché la mappa del voto nelle grandi città è totalmente differente da quella nazionale. Se si confrontano, come ha fatto Lorenzo Pregliasco di Youtrend, le percentuali del centrosinistra (senza 5 Stelle) e del centrodestra fra la somma dei cinque comuni maggiori e il dato nazionale in occasione delle ultime europee del 2019, si scopre un differenziale impressionante. 50,7% per il centrodestra e 28,4% per il centrosinistra a livello nazionale, situazione ribaltata nei grandi centri urbani, con l’area guidata dal Pd al 41,9% contro il 38,5% dello schieramento avversario.



È il partito di Enrico Letta, quindi, che ha tutto da perdere, anche se è riuscito a trasmettere l’immagine opposta. Per di più scoprire che l’alleato pentastellato a livello locale rischia una batosta clamorosa potrebbe preoccupare non poco in chiave delle sfide future. La scarsa affluenza nelle periferie romane, dove 5 anni fa la Raggi fu stravotata, non fanno presagire nulla di buono per i grillini, già quasi irrilevanti al Nord. La cura Conte non sembra affatto funzionare.

Per di più, il confine fra una vittoria e una mezza sconfitta è davvero sottile. Basta che Sala sia costretto al ballottaggio e che a Roma Calenda riesca nel miracolo di entrare al secondo turno (c’è stato persino l’endorsement di Giorgetti, poi parzialmente corretto, ad adombrare un possibile voto disgiunto), che al Nazareno ci sarebbe ben poco da festeggiare, contando anche le possibili affermazioni del centrodestra nelle regionali calabresi e nelle suppletive di Primavalle a Roma.



Certo, anche se riuscirà a limitare i danni, dopo il voto il centrodestra dovrà fare un profondo esame di coscienza. È stato il redivivo Silvio Berlusconi all’uscita dal seggio elettorale milanese ad aprire il fronte della scelta dei candidati. Deludenti i nomi indicati dai leader di partito dopo baruffe infinite, pensiamo alle primarie, ha detto il vecchio Cavaliere. E con quello strumento, c’è da scommetterci, a Milano avrebbe prevalso Albertini (cioè il candidato originario di Salvini), nome infinitamente più forte rispetto a Luca Bernardo, imposto, attraverso il gioco dei veti incrociati, da Licia Ronzulli (FI) con la desistenza dei meloniani.

Il voto amministrativo rischia di rappresentare un amaro ritorno alla realtà tanto per Giorgia Meloni quanto per Matteo Salvini, ridimensionando le loro velleità di leadership, o – quantomeno – costringendoli a smettere di farsi la deleteria guerra intestina vista in questa campagna elettorale.

Entrambi sono stati per di più azzoppati da due inchieste dal notevole tempismo. Certo, quella intorno al guru della comunicazione leghista Morisi ha un valore più politico, e richiama i leghisti a comportamenti meno disinvolti. Probabile che abbia fatto in tempo ad incidere anche sulle scelte degli elettori. Forse, perché tardiva, si rivelerà meno dannosa dal punto di vista del consenso quella intorno alla collusione di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia con ambienti neofascisti. Rappresenta però un messaggio che la Meloni farebbe bene a non sottovalutare. Un’allusione ai problemi che potrebbe incontrare sulla via di una possibile corsa verso Palazzo Chigi, impensabile senza recidere per davvero quei cordoni ombelicali con il passato che già Gianfranco Fini aveva provato di tagliare, riuscendovi però solo in parte.

Dal voto amministrativo, dunque, potrebbe uscire rafforzata l’area centrale della coalizione che sostiene Draghi (Pd, ma anche Forza Italia). Con le due ali indebolite (M5s da una parte, Lega dall’altra) qualche turbolenza potrebbe apparire presto all’orizzonte (reddito di cittadinanza, quota 100). Il premier non pare preoccupato, ma è opportuno che stia all’erta.

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