Sono state rese note stamane le tracce del ministero dell’istruzione per la prima prova della maturità 2024, e nell’elenco compare anche la Tipologia C1, tema d’attualità, “Elogio dell’imperfezione”, di Rita Levi-Montalcini. Qui sotto potete trovare la traccia svolta da Paolo Fracasso per conto del IlSussidiario.net.
COMPRENSIONE E ANALISI – TRACCIA SVOLTA TIPOLOGIA C1 MATURITÀ 2024
Al giorno d’oggi credo che tentare di articolare un “elogio dell’imperfezione” sia a tutti gli effetti strutturare una “contro-narrazione”. Con questo termine si usa etichettare tutto ciò che esula dai mantra contemporanei, che con un po’ di cinismo (o forse troppo) si potrebbero riassumere in tre imperativi categorici: vinci, consuma, appari. Il brano proposto offre ottimi spunti di riflessione per cercare di confutare almeno il primo ed il terzo di questi diktat, che non sono né da demonizzare in assoluto né da indicare come le cause di tutti i mali dell’uomo, ma senza la giusta prospettiva (ed ecco l’importanza delle contro-narrazioni) rischiano di essere elevati a valori indiscutibili, intoccabili, ed è proprio a quel punto che diventano pericolosi.
PRODUZIONE – TRACCIA SVOLTA PRIMA PROVA C1: RITA LEVI MONTALCINI E L’ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE
La prima riflessione, la più spontanea, potrebbe nascere attorno all’autrice di questo brano e dell’opera autobiografica: Rita Levi-Montalcini, uno di quei nomi che in Italia o si imparano a scuola o si conoscono comunque grazie al fatto che sono dati a piazze, strade, istituti scolatici stessi. Credo che la grande forza di questo “elogio dell’imperfezione” derivi in larga parte proprio dal fatto che chi l’ha scritto è qualcuno al quale mai si penserebbe vicino al concetto di “imperfetto”. Se a spiegare che l’imperfezione non è una sciagura da correggere o nascondere, ma piuttosto una “fonte inesauribile di gioia” è uno dei premi Nobel per la Medicina più celebri dello scorso secolo, forse vale la pena ascoltare e riflettere attentamente.
Accanto alla dott.ssa Levi-Montalcini saltano poi subito alla mente almeno altre due figure che nello scorso secolo hanno fatto la storia del nostro tempo (anche se in campi apparentemente molto distanti tra loro) e che, raccontando la propria vita, hanno voluto lasciare testimonianza della loro “imperfezione”: Eugenio Montale e Steve Jobs. Il primo (anch’egli premio Nobel) ha scritto nella poesia Per finire della raccolta Diario del ’71 e del ’72: “Vissi al cinque per cento”, affermazione davanti alla quale ad ognuno di noi verrebbe da gettare la spugna, perché, se il suo cinque per cento è stato quell’incredibile produzione poetica che ha lasciato, noi cosa potremmo anche con il nostro 100%? Credo, però, che l’intenzione del poeta fosse diversa, duplice se vogliamo: da un lato, evidenziare che l’imperfezione è fisiologica, che alla fine della vita ci sarà sempre un qualcosa che sentiamo di non aver finito, un qualcosa di sospeso, o magari anche di sbagliato, che ormai è impossibile correggere; dall’altro lato, trovo quest’affermazione competitiva, quasi a voler dire: “Io sono arrivato qui con il mio cinque per cento, ti sfido a fare di meglio”.
Passando a Steve Jobs, di lui ci è rimasta (oltre alla tecnologia di tutti i giorni) una celebre frase contenuta nel discorso che costui tenne davanti a numerosi studenti dell’Università di Stanford nel 2005: “Stay hungry, stay foolish”, “Siate affamati, siate folli”. Nel discorso appena citato, Jobs ripercorre alcuni momenti della sua vita, facendo capire come questa si stata tutt’altro che perfetta: lasciato in adozione, mollato il college nel quale i genitori avevano investito tutti i risparmi dopo i primi sei mesi, licenziato dall’azienda che lui stesso ha fondato. Il consiglio dell’imprenditore americano è quello di unire i puntini, azione possibile soltanto guardandosi indietro, mai guardando avanti, per cui sempre a cose fatte, a scelte compiute, ad errori commessi: unire i puntini ci permette di capire che per tentare di arrivare ad una stabilità, per provare a rendersi perfetti (cosa, per fortuna, impossibile) l’imperfezione è un passaggio obbligato, una conditio sine qua non, sia essa un deficit di partenza, un scelta sbagliata, una fiducia malriposta.
Ritengo opportuno rifarmi qui alla riflessione di Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco, il quale nella sua opera Genio e follia del 1922 ha sottolineato che “[…] come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell’opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita”.
La malattia, l’errore, l’imperfezione, “la maglia rotta nella rete” (In limine, Ossi di Seppia, E. Montale, 1925), sono tutte difficoltà, a volte dolorose, senza le quali però la bellezza non si riesce a sprigionare. Tanto la salita è più faticosa, tanto sarà più bello arrivare in cima. Nonostante suoni da frase fatta, quanto ci pensiamo nella vita di tutti i giorni? Quanto, nell’avvicinarci quotidianamente all’Altro, ci domandiamo che difficoltà sta attraversando? Quale imperfezione sta affrontando in quel momento?
Ritengo che il nostro tempo abbia paura dell’imperfezione non maggiormente o di meno rispetto al passato, ha semplicemente più mezzi a disposizione per nasconderla. Si comincia correggendo la propria apparenza ora con un filtro alla foto o con un ritocco al corpo non conforme ai canoni pubblicitari, passando per le malattie legate al peso, alle fobie sociali, per arrivare ai gesti estremi del suicidio o dell’isolamento totale volontario (fenomeno degli hikikomori). Quando il mondo fa vivere la propria imperfezione come la croce di una vita e non come la grande opportunità di non essere mai sazi, pieni, avendo sempre la possibilità di crescere e far crescere qualcosa dentro di noi, è allora che l’iter delineato nella frase precedente passa da essere “eccessivo” ad essere “normale”.
Vorrei concludere con l’ultima riflessione che questo tema mi propone: se c’è un luogo dove si può educare all’imperfezione propria ed altrui, se esiste uno spazio dove si può insegnare a partire dalla propria imperfezione per conoscere se stessi per farne così una parte feconda del nostro essere, quella è la scuola.
Per cui, mi auguro che il nostro tempo, grazie soprattutto all’azione di una nuova classe di maestre e professori consapevolmente imperfetti, viri presto verso acque sì più difficili, ma che, in fondo, insegnano meglio a navigare.