Tra dare e avere, la Pubblica amministrazione italiana preferisce di gran lunga l’avere, e si conquista il poco invidiabile primato europeo quale peggiore pagatrice: il debito commerciale di parte corrente nei confronti dei propri fornitori, in gran parte Pmi, nel 2022 ha toccato i 49,6 miliardi di euro. Non è una grande novità: già pre-pandemia i numeri erano praticamente identici, con i mancati pagamenti italiani che valevano circa il 2,6% del Pil (0,8% in Spagna, 1,5% in Francia, 1,6% in Germania).
E dire che già in un DL del 2002, che recepiva una direttiva comunitaria, si constatava che “il grande divario tra gli Stati dell’Unione europea, con riferimento ai termini contrattuali di pagamento, costituisce un ostacolo al buon funzionamento del mercato interno, limitando le transazioni commerciali, in contrasto con l’articolo 14 del Trattato, a mente del quale gli operatori economici dovrebbero essere in grado di svolgere le proprie attività, in tutto il mercato interno, a condizioni tali da annettere alle operazioni transfrontaliere i medesimi rischi di quelle interne”.
Dal 2002 a oggi non sembra essere cambiato gran che, tanto che nel 2020 la Corte di Giustizia europea richiamò l’Italia per la violazione dell’art. 4 della direttiva Ue 2011/7 sui tempi di pagamento nelle transazioni commerciali tra amministrazioni pubbliche e imprese private, e nel 2021 la Commissione europea inviò al Governo Draghi una lettera di messa in mora sul mancato rispetto delle disposizioni previste. I problemi italiani sono quelli noti da molti, troppi anni: scarsa liquidità, burocrazia inefficiente, contenziosi, ma anche intenzionalità, o perfino esplicite richieste ai fornitori di accettare clausole contrattuali che stabiliscano fin dall’inizio ritardi vistosi senza l’applicazione degli interessi di mora.
L’infelice quadro del Bel Paese esce dai dati Eurostat (la “casa delle statistiche” dell’Ue), elaborati dalla Cgia di Mestre (Venezia), ed è ancora più inquietante se accostato a un altro dato recentemente prodotto dal centro studi della medesima associazione di artigiani e piccole imprese: 146 mila imprese italiane (per 500 mila addetti) sarebbero concretamente a rischio usura, prevalentemente attività artigiane, esercenti o attività commerciali o piccoli imprenditori scivolati nell’insolvenza e segnalati dagli intermediari finanziari alla Centrale dei rischi della Banca d’Italia, quindi impossibilitati ad accedere a un nuovo prestito.
Sono piccole imprese che rimangono escluse dal trend adottato dalla Pa, che privilegia il pagamento in tempi brevi delle fatture di importo maggiore e ritarda intenzionalmente la liquidazione di quelle di importo meno elevato, modalità che mantiene basso il valore dell’Itp (l’indice di tempestività dei pagamenti), ma penalizza le piccole imprese che, generalmente, lavorano in appalti o forniture di importi limitati. Un circolo vizioso e pericoloso che continua, nonostante negli ultimi anni i ritardi di pagamento risultino in leggero calo, anche se resta da recuperare il consistente arretrato: vengono liquidate in tempo le fatture dell’anno corrente, ma si tralasciano intenzionalmente quelle ricevute in passato.
Non si tratta solo di questioni (pur esiziali) di cassa: in gioco è una delle leve utili per riavviare la crescita dell’economia italiana. “I ritardati pagamenti delle pubbliche amministrazioni – sosteneva già anni fa l’Avcp, l’autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, poi confluita nell’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione – determinano rilevanti effetti negativi sull’equilibrio finanziario delle imprese e sul grado di concorrenza nel mercato. Le imprese che stipulano contratti con le Pa sono sottoposte a un onere aggiuntivo rappresentato dall’ulteriore costo che le stesse devono sostenere per far fronte ai ritardati pagamenti, che peraltro si ripercuotono nel processo di determinazione dei prezzi offerti in sede di gara pubblica. Inoltre, tali oneri aggiuntivi risultano mediamente meno sostenibili dalle piccole e medie imprese, con la conseguenza che il mercato degli appalti finisce con il privilegiare le grandi imprese, rischiando così di far uscire definitivamente le prime dal mercato”. I ritardati pagamenti insistono per di più nell’attuale congiuntura economica di difficile accesso al credito bancario, con le manovre delle banche centrali europee tese ad aumentare i tassi d’interesse per limitare l’inflazione. Il tutto si traduce nella compromissione della competitività del sistema e “genera un potenziale effetto a catena che determina in alcuni casi il fallimento di un’intera filiera di fornitori e, più in generale, influisce sugli equilibri di mercato a livello macroeconomico, creando distorsioni della concorrenza”.
Secondo i dati della Cgia, basati sull’Itp del 2022, solo tre ministeri italiani su 15 hanno rispettato i termini di legge previsti: il Mef (ITP pari a -1,27), gli Esteri (-4,75) e l’Agricoltura (-4,88) hanno saldato i propri fornitori in anticipo, tutti gli altri dopo la scadenza pattuita. La maglia nera va all’ex Mise, l’attuale ministero delle Imprese e del made in Italy, che l’anno scorso ha saldato i propri fornitori con un ritardo di 85,40 giorni, tre mesi post-scadenza. A livello territoriale la situazione più critica si verifica al Sud. Tra le Amministrazioni regionali il Molise ha saldato con un ritardo di 69 giorni e l’Abruzzo dopo 74. Ma male anche il Piemonte (+65 giorni). Tra le principali Aziende sanitarie pubbliche del Centro Sud, Catanzaro ha liquidato dopo 43 giorni di ritardo, l’Asp di Reggio Calabria dopo 56 e l’Asp di Crotone dopo quasi 113 giorni. Tra i Comuni capoluogo di provincia, infine, le situazioni più difficili si sono verificate a Reggio Calabria (+61,43), Chieti (+69,47), Isernia (+93), Andria (+99,09) e Cosenza (+126,25). Drammatica la situazione del Comune di Napoli: +206 giorni.
A questo punto, l’associazione di Mestre ripropone una soluzione già sostenuta da più parti: la compensazione diretta tra debiti fiscali e crediti commerciali. Nel frattempo, però, l’Italia si sta affidando alla panacea del Pnrr anche per tentare di ridurre i tempi di pagamento delle Pa e delle autorità sanitarie verso i fornitori, cercando di fare in due anni quel che non si è fatto in venti, per arrivare entro il prossimo anno a far rispettare quel termine di 30 giorni già previsto dalla legge del 2002 (60 giorni per le aziende sanitarie).
L’iter previsto nel Pnrr ha previsto entro il primo trimestre del 2023 l’entrata in vigore di nuove norme, che comprendono anche l’istituzione del Sistema InIT (Nuovo sistema informatico gestionale di contabilità pubblica usato dalla Ragioneria Generale) a supporto dei processi di contabilità pubblica e di esecuzione della spesa pubblica (il sistema esiste già, e dovrà assorbire in un unico modulo quelli attualmente in uso nelle Amministrazioni centrali per la gestione della contabilità pubblica). E l’adozione di nuovi indicatori (forniti dal sistema informativo della Piattaforma per i crediti commerciali Pcc gestito dal Mef) costituiti dalla media ponderata dei tempi di ritardo dei pagamenti delle Pa. Entro la fine del 2023, sulla base della Pcc, la media dovrà essere pari o inferiore a 30 giorni (60 per la sanità). Entrambi i risultati dovranno poi essere confermati nel 2024. Obiettivi precisi, di sostanza e di tempi. Ma l’Italia è pur sempre una Repubblica fondata anche sulle deroghe…
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.