L’attuazione del programma Next Generation Eu in Italia prosegue a rilento, tanto da indurre il Governo in carica a prenderne atto e di richiedere alla Commissione europea di allungare i tempi di attuazione degli impegni programmati. Impegni che, sulla base degli accordi in essere, rimangono vincolanti per ottenere l’erogazione delle nuove rate di finanziamento.
In tempi non sospetti ci eravamo permessi di dubitare: a) sulla possibilità della nostra Pubblica amministrazione di triplicare la capacità di spesa per gli investimenti rispetto a quella registrata nella seconda decade degli anni 2000, che rimane la principale condizione per riversare nell’economia reale il volume delle risorse del Pnrr prenotate dall’Italia; b) sull’opportunità di utilizzare a man bassa, unico Paese europeo, quelle legate ai prestiti da restituire; c) riguardo l’ottimismo che circolava sul raggiungimento degli obiettivi di spesa, tenendo conto che quelli ottenuti nel corso del 2022 erano collegati principalmente all’attribuzione delle risorse e rimandavano al 2023 la verifica sulla autentica capacità di spesa delle Pa.
Su quest’ultimo aspetto la spesa effettiva, al netto degli incentivi automatici verso le imprese e le famiglie, rimane attestata a un misero 6%. Un livello che, secondo una indagine del Sole 24 Ore, è inferiore alla metà degli impegni assunti e che impone un recupero di circa 20 miliardi nel 2023 e di 25-30 miliardi nei prossimi due anni per onorare i vincoli assunti con l’Ue.
I nodi sono venuti al pettine. Ma non ha molto senso scaricare le colpe sui Governi di turno, ovvero quelli che li hanno preceduti. Dato che l’origine dei ritardi affonda le radici nei difetti di lungo periodo delle nostre politiche economiche e nella sottovalutazione di alcune tendenze negative del nostro mercato del lavoro.
Nel novero dei ritardi strutturali va collocata l’oggettiva impossibilità dell’amministrazione di assecondare gli adempimenti legati alla progettazione e alla gestione delle procedure di assegnazione delle risorse. Una criticità che il programma originale si proponeva di contrastare con supplementi di semplificazione delle procedure e con una campagna di assunzioni di nuovo personale specializzato nell’ambito delle Pa. La prima soluzione, oggetto di una serie di decreti adottati per lo scopo dagli ultimi tre Governi, si scontra con l’inevitabile circuito vizioso dei provvedimenti attuativi, che a loro volta devono fare i conti con le procedure della Pubblica amministrazione che finiscono per generare il risultato opposto.
I bandi di selezione per il nuovo personale nel corso del 2022 sono stati riscontrati in termini di assunzioni reali per meno del 30%. La scarsa appetibilità delle offerte di lavoro della Pa per i profili tecnici specializzati continua a essere sottovalutata ed è destinata ad aggravare per la scarsità di queste figure professionali nell’insieme del mercato del lavoro.
Per tentare di accelerare i volumi di spesa immediata, le Amministrazioni hanno cercato di impegnare le risorse già disponibili nei progetti già approvati e in fase di attuazione. Interventi che hanno registrato un ostacolo imprevisto per l’aumento dei costi legati a diversi fattori, a partire dal rincaro di quelli energetici e dei materiali da costruzione provocati dalla bolla speculativa del superbonus. Con il risultato finale di provocare il sostanziale blocco degli appalti per l’incongruità dei prezzi stabiliti in precedenza.
Le riforme promesse per facilitare il concorso delle risorse private, a partire da quelle del fisco e della giustizia, hanno prodotto risultati modesti. Anche questi oggetto di continui ripensamenti legati alle congiunture politiche. Buona parte delle promesse di riforma dell’attuale Esecutivo sono prive della disponibilità di risorse perché nel frattempo la spesa pubblica risulta aggravata dall’aumento dei tassi di interesse che pesano sul deficit annuale e dall’impatto dei costi pluriennali sul debito pubblico generati dal superbonus e dalla cessione dei crediti d’imposta.
Ce n’è a sufficienza per ridisegnare gli obiettivi, i mezzi e la cornice finanziaria del Pnrr? La risposta è positiva. Ma l’approccio realistico con è sufficiente.
La prima verifica dovrebbe essere fatta riguardo l’adeguatezza degli obiettivi. La visione irenica della transizione ecologica e digitale che ha accompagnato il varo del Pnrr ha subito lo scossone della crisi delle relazioni geopolitiche. Ricostruire un’idea condivisa degli interessi del nostro Paese in termini di autosufficienza energetica, attrazione degli investimenti, sostenibilità delle nostre produzioni è un passaggio indispensabile.
L’impatto dell’invecchiamento demografico sulla popolazione in età di lavoro e sulla sostenibilità del nostro welfare rischia di essere devastante. Lo è già, con tutta evidenza, nel mercato del lavoro, sulla tenuta del sistema sanitario e dell’assistenza. Sono priorità che richiederebbero un ripensamento della destinazione delle risorse disponibili, ma, colpevolmente, continuano a essere ignorate.
Per rimediare il sottoutilizzo delle risorse finanziarie, pubbliche e private, e di quelle umane imprenditoriali e lavorative, è necessario ripensare la governance degli interventi. Per quanto necessarie, le riforme della Pubblica amministrazione e la digitalizzazione dei servizi sono ben lontane dalla possibilità di ottenere i risultati se i singoli ambiti del programma non vengono riprogettati con il concorso dei protagonisti veri dell’economia e della società civile che sono le imprese, il mondo del lavoro e le famiglie. I soggetti che, nonostante tutto tengono in piedi il nostro Paese a dispetto delle politiche che promettono i miracoli di Stato.
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