Il ministro Fitto nella sua relazione alla Camera parla di soluzione in vista per la terza rata del Pnnr e di trattativa in corso con l’Europa basata sulla rimodulazione di alcuni obiettivi come asili nido, scuole dell’infanzia, sperimentazione dell’idrogeno nei mezzi di trasporto. Il Governo, insomma, tratta con la Ue per portare a casa il più possibile riguardo ai fondi del Pnrr. La montagna da scalare però è ancor alta. Le previsioni più pessimistiche parlano della realizzazione solo di un terzo del piano.
Secondo Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, si potrà arrivare al 75%. Ma con un impatto inferiore a quello previsto. Il problema resta quello di adeguare la pubblica amministrazione per far volare l’economia del Paese. Ma tutto ciò non può succedere senza un atteggiamento meno rigido dell’Europa sul Patto di stabilità, da ottenere offrendo in cambio una spending review che razionalizzi la spesa.
Professore, a che punto siamo sul Pnrr, le prospettive restano nere?
Stiamo facendo delle ipotesi eroiche per cercare di capire a che stadio siamo. Certe cose ormai le portiamo a casa per il periodo 2020-2022, rispetto alla pianificazione prevista, ma la mancata messa a terra del Pnrr spiega in larga parte le dinamiche del prodotto interno lordo italiano rispetto al resto d’Europa. Se noi dal 2020 al 2023 cresciamo al 2%, quando l’area euro cresce al 3, l’America al 6 e il mondo all’8, e questo malgrado la presenza enorme del Pnrr, qualcosa non sta andando bene. Vero è che il Governo spera di recuperare dal 2023 al 2026 ma le migliori stime che abbiamo dicono che chiuderemo il Pnrr a un terzo della messa a terra di quanto dovuto: è particolarmente terrorizzante. Immagino che sia il benchmark che il Governo vuole assolutamente evitare.
Qual è il vero motivo di questa incapacità di sfruttare per intero l’opportunità che arriva dall’Europa?
Va detto a giustificazione di questo Governo e dei precedenti che chiedere alle macchine amministrative di adeguarsi a piani così stringenti è complesso. Le responsabilità di questi ritardi sono da individuare nella incapacità di progettazione, appalto e monitoraggio nello svolgimento delle opere.
La pubblica amministrazione non è adeguata?
È da tempo che ne parliamo insieme a Il Sussidiario. Quando è arrivato il Pnrr avevamo detto immediatamente che senza strutture organizzative competenti, fatte sia di giovani bravi che di esperti strapagati, non ce l’avremmo mai fatta. E avevamo guardato con terribile preoccupazione allo stanziamento di pochissime briciole, mi sembra 750 milioni di euro su sei anni, 200 euro a dipendente, per i nostri pubblici dipendenti assunti poi a tempo determinato con metodologie di selezione che fanno venire i brividi. Quando si seleziona con domanda a risposta multipla non può che succedere quello che è successo, che prendiamo personale che in larga parte dopo pochi mesi abbandona.
Abbandona perché non è pagato abbastanza?
Sicuramente sì se parliamo degli esperti, mentre credo non sia stati selezionati i giovani bravi perché i requisiti per partecipare erano troppo alti. Per di più gli esperti che abbiamo preso non sempre sono esperti perché appunto, come fai a selezionarli con domande a risposta multipla? Questo in un contesto in cui le piante organiche gridano vendetta, per tutta l’ostilità che ci ha caratterizzato in questi dieci anni e che ci ha portato a essere il Paese con il più basso numero di dipendenti pubblici per popolazione e il Paese con l’età media più alta. Un chiaro segno della mancanza di investimento in capitale umano di cui è corresponsabile l’Europa, perché negli anni non ha mai guardato alla spending review come madre di tutte le riforme per il nostro Paese. Certo, è anche colpa nostra che non l’abbiamo mai voluta attuare.
Restano norme europee stringenti per quanto riguarda il debito pubblico, quanto pesano ancora?
L’articolo 10 del Pnrr prevede che tutto questo vada fatto con restrizioni incredibili del deficit pubblico, costanti, programmate verso il 3%, il che ha reso per il Governo Meloni inevitabile tenere ferma sia la spesa che beni e servizi, con una spesa per il personale che deve tener conto dell’inflazione al 15% in due anni. La pubblica amministrazione è diventata terribilmente meno attraente di quanto fosse già prima, con stipendi diminuiti del 15% e gli acquisti di beni e servizi, funzionali alla messa a terra di tutto il complementare del Pnrr, senza la disponibilità per comprare la strumentazione necessaria.
Non abbiamo la macchina neanche per andare a 100 all’ora e ci chiedono di andare a 120?
Sì, è così. Comunque devo ammettere che questo Governo per come stanno prendendo la situazione, come date, sta facendo il massimo: l’accentramento del centro decisionale sotto il ministro Fitto, tutta una serie di accordi con l’Europa, le trattative dirette sull’edilizia scolastica. Ci sono mosse pragmatiche che tengono conto di quanto va fatto, ma manca il manico.
Ma qual è il vero nodo da sciogliere?
Faccio notare che oggi si discute della riforma del Patto di stabilità che è parte integrante dell’articolo 10 e l’Italia non batte un colpo. È un dialogo-battaglia tra commissione europea e Germania che ha fermato la proposta, problematica per noi, di creare Paesi di serie A e serie B, chiedendo regole uguali per tutti. Salvo poi aggiungere la sua visione comunque austera. Pur tuttavia l’Italia non batte un colpo su qualcosa che da dieci anni sta determinando il futuro di un Paese, che sta scomparendo in termini economici rispetto al suo potenziale. Abbiamo un problema demografico, ma abbiamo anche un immenso problema di produttività che da sempre è da legare alla qualità della pubblica amministrazione.
Il punto da affrontare prioritariamente quindi è ancora il Patto di stabilità?
Sì, ma è impensabile chiedere all’Europa di darci più libertà di azione sul Patto di stabilità se non diamo qualcosa in cambio, che deve essere la spending review. Che non vuol dire tagli di spesa ma riqualificazione della spesa. Se non lo facciamo non si va da nessuna parte. Capisco il silenzio italiano, l’Italia non chiede perché l’Italia non dà. Ma questo è un dilemma del prigioniero che ci vede sconfitti, sia noi che l’Europa: l’Europa perde da un’Italia debole e l’Italia perde da un’Europa debole.
Moody’ intanto parla di un possibile declassamento del nostro Paese se non si faranno gli investimenti previsti con il Pnrr: è un pericolo reale?
Penso che questo declassamento non avverrà perché la Meloni sta facendo lo sforzo di fare quello che l’Europa ritiene la cosa giusta: ha sorpreso tutti. Il modello europeo, però, non ha generato un continente forte a livello politico, perché non siamo forti a livello economico. L’anello debole di questa catena è la politica austera per i Paesi che invece hanno bisogno di investimenti pubblici per tornar a crescere. Se l’Italia fa da sola sul deficit salta il banco e Moody’s declassa, se fa un accordo con l’Europa, dove le viene dato il permesso di fare più deficit per gli investimenti pubblici insieme alla spending review, Moody’s non si azzarderà mai a fare il declassamento anche con un deficit maggiore.
Ma alla fine sul Pnrr cosa porteremo a casa?
Un allungamento dei tempi, con un impatto diluito su più anni, ci aspetteranno dei ritardi, delle negoziazioni politiche per non far saltare il banco.
Riusciremo a realizzarlo interamente?
Probabilmente lo porteremo a casa per il 75%, e non al 30%, ma in molti più anni, che è un identico fallimento. Probabilmente in emergenza, cambiando i progetti senza averci ragionato sopra. E le chance che le gare siano fatte bene, in assenza di una pubblica amministrazione competente e brillante, ovviamente diminuiscono. Tutte le previsioni di impatto dovranno essere riviste al ribasso, ancor prima del problema di spendere tutti i soldi. Alla fine in nove anni spenderemo una gran parte dei soldi, ma con un impatto molto minore di quello che era stato dichiarato nel 2020-2021. È un messaggio ottimistico, si può fare, si sa come fare, è solo una questione di volontà.
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