Rafah resterebbe un obiettivo (lo ha confermato Netanyahu), ma intanto Israele ha ritirato gran parte delle truppe dal Sud di Gaza. Il motivo, spiega Toni Capuozzo, giornalista e inviato di guerra, è che l’IDF accusa la fatica di sei mesi di guerra: molti soldati sono riservisti, quindi civili che sono stati richiamati nell’esercito, e Netanyahu è preoccupato per il fronte con il Libano, dove per realizzare il cuscinetto di sicurezza di 10 chilometri che rappresenta l’obiettivo degli israeliani occorrerebbe un’azione molto più decisa militarmente di quella sostenuta finora. La decisione potrebbe essere letta anche come un contentino per Biden, tranquillizzato di fronte alla prospettiva di una guerra che continui con azioni mirate e non plateali come in precedenza.
Intanto si fa largo un’ipotesi: che Israele, invece di distruggere Hamas, si accontenti di colpire Yahya Sinwar e Mohamed Deif, i due capi militari operativi a Gaza. Se ci fosse una frattura interna all’organizzazione palestinese, gli israeliani potrebbero anche essere aiutati in questo loro proposito dall’ala politica di Hamas. Un’ipotesi che può sembrare azzardata, ma non così inverosimile.
Proseguono, infine, i colloqui per una tregua, che secondo egiziani e qatarioti (meno, ufficialmente, per Hamas e Israele) potrebbe essere imminente: la proposta americana è di sei settimane in cambio di 40 ostaggi
Il ritiro delle forze israeliane da Gaza Sud è una mossa a sorpresa: gli israeliani stanno ripensando anche all’attacco a Rafah? Cosa è cambiato? Influisce la paura di una reazione dell’Iran e di un attacco su un altro fronte?
Il ritiro delle forze da Khan Younis ha poco a che vedere con l’attacco a Rafah, che potrebbe esserci comunque. Mi sembra innanzitutto l’indizio di una scelta strettamente militare: i segni di fatica dell’esercito israeliano sono evidenti, la brigata di riservisti che si trovava nella zona di Khan Younis era da quattro mesi sul terreno. Utilizzare i riservisti, poi, significa sottrarre una parte attiva alla società. Se dovessi legare questa decisione a uno scenario militare, più che alla risposta iraniana, che sarà probabilmente di marca terroristica e nei confronti della quale c’è poco da fare se non chiudere le ambasciate, la collegherei al fronte libanese. Il confine con il Libano resta un problema aperto per Israele: vuole creare una fascia di sicurezza di almeno 10 chilometri di profondità e la sicurezza non si può ottenere solo rispondendo al lancio dei razzi o muovendosi per punture di spillo.
Come potrebbero raggiungere gli israeliani questo obiettivo?
O le Nazioni Unite tirano fuori un’autorità che non hanno avuto finora per imporre questa fascia di sicurezza, oppure lo dovrà fare Israele con i suoi mezzi. Tra le ragioni del consistente ritiro di truppe da Gaza Sud, comunque, c’è anche il fatto che in questo momento Israele ha più bisogno di interventi mirati, non per scrupolo nei confronti dei cosiddetti danni collaterali, ma perché è il momento giusto per organizzarli. E allora credo che contino molto più l’intelligence, le intercettazioni, la Humint, che non il controllo del territorio con grandi numeri militari. Bastano scout e ranger sul terreno che chiedono l’intervento di un aereo, è questione di secondi.
Cominciano a contare anche le perdite dei soldati nell’IDF?
Israele sta avendo 260 morti dopo il 7 ottobre. Possono sembrare nulla rispetto a quelli di Hamas e dei palestinesi, ma il Paese resta sensibile a un dato del genere, perché si tratta in gran parte di riservisti, persone sottratte alla loro vita privata per combattere. L’ultimo episodio riguarda una pattuglia di quattro uomini uccisa con un lanciarazzi da un commando di Hamas uscito da un tunnel. I miliziani sono stati inseguiti ma poi ci si è accorti che l’imbocco del cunicolo era stato minato. Una presenza sul territorio in un’area che si crede di avere sotto controllo, con un inevitabile rilassamento, è molto rischiosa per Israele. Da ultimo, credo che il ritiro sia una carta giocata anche nei confronti di Biden, una specie di contentino che prevede il ricorso ad azioni mirate e non più plateali.
I progetti su Rafah sono stati abbandonati?
Su Rafah credo che dovranno creare una cintura, un cordone di sicurezza. Non possono permettersi che le ultime quattro brigate di Hamas sguscino fuori per andarsi a rifugiare in altri posti. Sarebbe un insuccesso. I piani che gli israeliani hanno preparato e consegnato agli americani sono stati giudicati poco credibili. L’appello ai civili ad abbandonare l’area, filtrando le persone che escono, è un piano difficile da attuare, visto che si tratta di più di un milione di persone.
Il ritiro parziale delle truppe significa, quindi, che sono stati ricalibrati gli obiettivi?
Se Israele riuscisse con un missile a far fuori Yahya Sinwar e Mohamed Deif, potrebbe dichiarare la vittoria. Tanto non si può pensare di eliminare il corpo politico di Hamas. Si tratta di un movimento che è stato votato: molti palestinesi hanno cambiato idea perché Hamas li ha cacciati in una situazione disperata, ma non si può credere di cancellare Hamas per sempre. Si può pensare, invece, di decapitarne l’organizzazione. Per Netanyahu sarebbe un’ottima via d’uscita. Non dalla situazione conflittuale, perché ha interesse a tenere alta la tensione e si dedicherebbe al Libano, ma con la testa di Sinwar e Deif avrebbe raggiunto il minimo sindacale.
La decisione è conseguenza di un cambio di strategia da parte israeliana?
È anche il segno di una difficoltà dell’operazione: sono lì da sei mesi ed è molto dispendiosa. Dobbiamo calcolare il peso del fattore umano. Nella guerra in Ucraina si sta rivelando decisivo, conta più delle munizioni. Lo stesso succede anche a Gaza. Se si chiamano i civili sotto le armi, si perde forza lavoro, si sottopone la società civile a uno stress: quando muoiono quattro riservisti che erano di pattuglia, ci sono quattro famiglie che precipitano nel lutto.
Gli israeliani stanno anche cominciando a prendere in considerazione di finire la guerra?
Ripeto, devono colpire almeno l’obiettivo numero 1 e numero 2, Sinwar e Deif. Consentirebbe di vendere tutto quello che è successo come una vittoria. L’unica ipotesi è che ci sia una frattura fra la dirigenza interna di Hamas e quella che sta in Qatar, geneticamente più negoziale. Se Ismail Haniyeh e gli altri percepissero che sacrificare Sinwar e Deif potrebbe voler dire la fine della sofferenza del popolo palestinese, salvando la presenza di un Hamas 2.0 al tavolo del dopo Gaza, credo che qualche spiata potrebbe arrivare. Sarebbe un’ipotesi non del tutto peregrina.
Gli egiziani, intanto, sembrano molto ottimisti su un possibile accordo per la tregua. Anche se Israele e Hamas non esprimono la stessa fiducia. Si sta aprendo uno spiraglio o no?
È possibile che stiano trattando veramente, ma fatta salva l’ipotesi di una divisione all’interno di Hamas, mi sembra che l’organizzazione palestinese abbia tutto l’interesse a dire di no al piano degli israeliani. Vede Israele in difficoltà: lo dimostrano il ritiro delle forze di terra, la tensione con la Casa Bianca e il fatto che l’emergenza alimentare, dopo l’uccisione dei sette operatori umanitari che distribuivano cibo, è ancora più politica. Hamas vuole cucinare a fuoco lento Israele. E quello che Netanyahu può concedere in cambio per ottenere la liberazione degli ostaggi non credo sia abbastanza per convincerla. Sulla conclusione delle trattative sono pessimista.
(Paolo Rossetti)
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