Pressioni americane? No, una decisione autonoma di Israele. Si spiegherebbe così la scelta di fare abbandonare a gran parte delle truppe il Sud di Gaza, con la volontà di riposizionare i soldati dell’IDF più a Nord e con la constatazione che, secondo le valutazioni dell’esercito israeliano, sostanzialmente il grosso del lavoro è stato fatto. Se ci saranno segnali contrari, osserva Vincenzo Giallongo, generale dei Carabinieri in congedo con al suo attivo missioni in Iraq, Albania, Kuwait e Kosovo, che dimostreranno la necessità di “bonificare” ulteriormente l’area, si potrà sempre tornare sui propri passi. Tutto questo non inficia un’azione a Rafah: il premier Netanyahu ha detto che ci sarebbe già la data d’inizio, il ministro della Difesa Gallant lo ha smentito, ma alla fine sono discordanze all’interno di un governo nel quale l’intervento a Rafah non è ecluso. Insomma, Israele va per la sua strada: per questo difficilmente accetterà un accordo sulla tregua e men che meno la proposta di Biden di sei-otto settimane di cessate il fuoco unilaterale.
Dal punto di vista militare cosa significa il ritiro delle truppe dal Sud di Gaza e quali prospettive apre per la guerra?
Credo che abbiano ritirato parte delle truppe semplicemente perché hanno fatto quello che dovevano fare. Chi c’era, di Hamas, lo hanno preso e chi è scappato è scappato. E adesso hanno bisogno di forze da destinare al Nord, da tenere in riserva in caso di ipotetici attacchi, non dell’Iran ma di gruppi terroristici suoi fratelli. Israele per adesso ritiene di aver fatto la sua parte. Poi saranno i fatti a dimostrare se la valutazione sia esatta. Se dal Sud verrà fuori qualche altra magagna, gli israeliani interverranno ancora.
Netanyahu, però, ha detto che è già stata fissata la data dell’attacco a Rafah, anche se sarebbe stato smentito dal suo ministro della Difesa Yoav Gallant in un colloquio con l’omologo americano Lloyd Austin. L’operazione di terra nella città al confine con l’Egitto si farà?
Penso che non ci siano tutti questi punti fermi di cui parla Netanyahu. Sicuramente vogliono spazzare via Hamas, ma nel governo non si stanno accordando su quali sono le priorità: c’è chi vuole un attacco al Nord, chi vuole far fuori gli Hezbollah. Non dimentichiamoci però che un conto è quello che viene riferito negli incontri con gli alleati, a cui si dice il 60-70% della verità, altro è quello che si afferma nel Consiglio dei ministri. Israele prima di aprirsi completamente con gli USA vuole vedere le carte americane.
Il ritiro delle truppe, che non è totale, è stata quindi una scelta israeliana? Se non fosse stata una decisione già presa, le pressioni di Biden non avrebbero contato molto?
Gli israeliani mantengono reparti per il controllo del territorio. La decisione del ritiro è tutta farina del loro sacco. Hanno fatto di testa loro. Negli anni passati davano un po’ più retta all’Occidente e agli americani, in questo momento no.
Alla fine a Rafah faranno qualcosa?
Sì, sicuramente. Quanto meno uno spiegamento di forze con un controllo molto stretto, non possono permettersi di non fare nulla in un territorio da cui possono arrivare fastidi. Sarà un’operazione di terra, semmai, se lo riterranno opportuno, con il lancio di missili mirati su edifici dove pensano siano nascosti esponenti di Hamas.
Se dovessero dare il via all’azione rimarrebbe comunque il tema degli sfollati. In queste ore si è parlato dell’acquisto di 40mila tende per loro. Come si comporterà Israele?
È una bella grana, non credo però che a Israele importi molto. Certo, dovranno tenere conto delle spinte umanitarie, delle critiche dell’Occidente, ma da questo punto di vista Israele farà qualcosa solo quando tutto sarà terminato: per ora è un problema secondario, fastidioso ma secondario.
Biden intanto ha chiesto a Netanyahu una tregua unilaterale di sei o otto settimane: anche su questo il governo risponderà di no?
Credo proprio che la richiesta non possa essere assecondata. Biden viene continuamente tirato per la giacca e ha fatto quello che doveva fare. Ma un conto è chiedere, un conto vedersi esaudire le richieste. Non penso che Israele possa accettare questo tipo di proposta: non vuole la tregua neanche sulla base di un accordo, perché ritiene Hamas non affidabile, a maggior ragione resterà dello stesso avviso se l’istanza è quella di un gesto unilaterale. La necessità di un cessate il fuoco è diventata quasi una questione di sopravvivenza per Hamas. Non credo che Israele lo conceda.
Anche le trattative per la tregua, allora, non porteranno a niente?
Le vedevo così fin dall’inizio: le voci giornalistiche, più che dire quello che sta accadendo, riportano quello che vorrebbero che accadesse.
L’IDF ha comunque necessità di far riposare i soldati che sono stati in prima linea?
Gli israeliani sono pronti e organizzati per una guerra che duri due anni e ritengono di avere uomini e cambi necessari. Parliamo di un Paese di giovani e tali sono anche le forze armate, ma anche i giovani devi farli riposare. È quello che stanno facendo con il ritiro dei contingenti dal Sud: qualche soldato viene spostato al Nord, altri vengono messi in aspettativa.
Ma Israele lascerà entrare qualche aiuto in più?
Sì, già lo stanno facendo.
Il ritiro delle truppe, in conclusione, è solo perché ritengono di doverle spostare a Nord? Hanno paura di dover essere impegnati da qualche altra parte?
Israele di sicuro non agisce in base alla paura. È un riposizionamento delle forze. Certamente hanno previsto che ci sarà qualche attacco di gruppi terroristici filoiraniani. Non penso, tuttavia, che Teheran possa attaccare direttamente Israele, sarebbe la fine dell’Iran.
(Paolo Rossetti)
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