Mentre soffiano venti gelidi tra Ucraina e Russia, ma forse sarebbe meglio dire tra Usa e Russia, con l’Europa sostanzialmente alla finestra, ci accorgiamo della nostra cronica debolezza, anche per quanto riguarda l’energia. Che troppo spesso dimentichiamo essere uno dei pilastri, quasi invisibili ma dannatamente imprescindibili, del nostro vivere quotidiano. Pensiamo ancora sia una “commodity”, un prodotto come tanti altri, disponibile sul mercato quasi fosse un qualsiasi pacco di bucatini sullo scaffale del supermercato. Uffa… che problema vuoi che sia: quante marche di pasta, e quanti supermarket! È proprio il mercato poi che deve fare il suo corso, con la libera competizione a garantire efficienza e prezzi competitivi per tutti, famiglie e imprese.
In parte è vero, ma perché sia realmente così, occorrono a monte decisioni politiche solide e lungimiranti, servono soprattutto le giuste valutazioni circa infrastrutture e tecnologie, servono strategie che le realizzino e le salvaguardino, considerando adeguatamente lo scenario di forte dipendenza da paesi extra-Ue, come per le fonti fossili e le rinnovabili. E quando così non è, può capitare che i nodi vengano al pettine.
In un magistrale intervento sul blog RiEnergia dello scorso 8 febbraio (“Il lungo, il corto, il russo”), il professor Massimo Nicolazzi spiega molto bene, in modo comprensibile anche ai neofiti, cosa ci sia dietro questa non imprevedibile fiammata dei prezzi dell’energia, che ruotano attorno al metano. Dalla ripresa economica e della produzione in Cina, con la sua transizione dal carbone al gas, alla trasformazione commerciale degli anni scorsi, dai contratti di lungo termine al mercato “spot”, sino alle contraddizioni europee. E su questa musica di fondo si inserisce l’acuto del caso russo.
Il quadro, in breve. Che tipo di energia consumiamo, per far girare l’Europa? I dati Eurostat (2019) ci dicono che per il 70% usiamo ancora combustibili fossili, poi 15% rinnovabili e 13% nucleare. E da dove arriva l’energia? L’Unione Europea dipende per oltre il 60% da paesi extra-Ue (l’Italia dipende per il 77%, la Germania per il 67%, la Francia per il 47%), con la Russia di gran lunga primo fornitore sui fossili (da Mosca arriva il 41% del gas, il 27% dell’olio combustibile, il 47% del carbone). E non sarà meglio per le rinnovabili: già nel 2019, l’allora Commissario europeo per il Clima e l’Energia, Miguel Arias Cañete, avvertiva come il fatto che “la Cina sia il principale produttore di certi minerali e componenti, come i magneti usati nelle turbine eoliche – 83% della produzione mondiale – o di elettroliti usati nelle batterie – 60% – possa avere un serio impatto sulla competitività europea”.
Le risposte a questo scenario così critico per l’Europa sembrano strabiche.
La Germania chiude le proprie centrali nucleari (che non emettono CO2) e riapre vecchie centrali a lignite, confermandosi di gran lunga il primo paese inquinatore nell’Unione. E pensa di sostituire, prima o poi, il carbone con il gas, certamente con meno impatto sull’ambiente, ma non sulla dipendenza energetica e geopolitica, vista la necessità di utilizzare il gasdotto russo Nord Stream 2.
La Francia, invece, mette il nucleare al primo posto del suo Recovery plan e oltre alle rinnovabili programma nuove centrali, come fece negli anni 70 dopo la crisi petrolifera mondiale. Nei giorni scorsi, il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato l’intenzione di costruire 6 nuovi reattori di grande taglia Epr2, un progetto modificato rispetto all’attuale Epr, che ha mostrato parecchie ombre quanto a tempi e costi di realizzazione. Il primo di questa nuova flotta dovrà entrare in funzione nel 2035. Contemporaneamente, avvierà lo studio di fattibilità per altri 8 reattori. Il piano al 2050, come previsto dal gestore della rete elettrica francese Rte, potrebbe confermare il nucleare al 36% del fabbisogno elettrico, una quota importante (circa la metà della quota attuale) pur in presenza di una forte spinta sulle rinnovabili.
Anche i reattori piccoli modulari verranno considerati: potrebbero essere da 5 a 7 i reattori “Nuward”, in questo scenario che prevede in totale 25 Gw di nuovo nucleare al 2050. Ma altre due decisioni accompagnano il piano di Macron: l’estensione della vita oltre i 50 anni per le centrali attualmente in funzione e la possibilità di chiudere, nel caso, una centrale, ma solo per ragioni legate alla sua sicurezza. A differenza, è utile ricordarlo, di quanto fatto dalla Merkel in Germania: per giustificare l’uscita dal nucleare, ha dovuto istituire una commissione “etica”.
La scelta francese potrebbe essere seguita da altri paesi europei: dall’Olanda, ad esempio, e probabilmente anche dal Belgio.
Il nucleare europeo, con i suoi 106 reattori, garantisce oggi circa il 50% dell’elettricità “verde” del continente. Le emissioni di gas serra di una centrale nucleare, dalla costruzione allo smantellamento, sono uguali a quelle dell’eolico (20 grammi di CO2 per kWh prodotto), addirittura meno del fotovoltaico. Per questi motivi appare ragionevole la proposta della Commissione europea di includere l’atomo nella tassonomia verde. L’aver aggiunto anche il gas, invece, è segno di realismo, se si vuole rendere veramente “sostenibile” la transizione, in termini di tempi e costi, sia economici che sociali.
A complemento dell’analisi, infine, è utile considerare che l’investimento sul nucleare, oltre ad essere “green”, è un beneficio per l’Europa anche dal punto di vista geopolitico e di economia industriale, perché oltre l’80% dell’investimento rimane nell’Unione, a differenza dei combustibili fossili e delle rinnovabili.
In questo risiko energetico, l’Italia più di tutte le altre nazioni europee soffre il quadro descritto in precedenza. È già fortemente impegnata a finanziare le rinnovabili e a realizzare nuovi impianti. Sta comprendendo la necessità di sfruttare al meglio le riserve di gas che possiede. Ma sarebbe anche opportuno che contribuisse allo sviluppo di nuove tecnologie nucleari, più sicure e più sostenibili, come i piccoli reattori modulari e i reattori di IV generazione, in un quadro di collaborazioni europee, per dotare il continente di nuove soluzioni già entro il 2030 e accelerare così la transizione, riducendo i costi energetici e la dipendenza da altri paesi.
Le competenze tecnologiche e l’interesse del settore industriale ci sono già. Basterebbe un “piccolo” finanziamento. Basterebbe destinare a questa soluzione l’8 per mille dei fondi che abbiamo già speso e che spenderemo nei prossimi anni per sussidiare le rinnovabili. Sì, una operazione anche culturale.
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