A volte ritornano. Pochi giorni fa per ricordare al mondo che la Colombia non è pacificata, che è ancora lo Stato nello Stato, le Fuerzas Armadas Revolucionarias hanno annunciato che non intendono deporre le armi. In un video di 32 minuti, Iván Márquez, ex negoziatore di pace, accompagnato da diversi leader dissidenti, ha detto che sta iniziando una “nuova fase della lotta armata”.



Una doccia fredda per la Colombia, dopo gli storici accordi di pace del novembre 2016 tra il governo di Juan Manuel Santos e le FARC, che ha regalato al gruppo un inedito spazio in forma di partito politico. Pace tradita secondo questi guerriglieri, che accusano lo Stato di essere venuto meno alle garanzie fisiche e giuridiche pattuite.



Bisogna dunque insorgere di nuovo perché “finché si lotta c’è speranza di vincere”. L’obiettivo però non è più lo scontro con l’esercito regolare, ma contro la classe politica “mafiosa e corrotta”. I finanziamenti non verranno più dai sequestri di persona, ma attraverso “accordi con contadini e imprenditori”. Ci saranno dunque “forme innovative” di lotta non finalizzate alla presa di potere ma a un governo di transizione che sfocerà in una costituente.

Difficile però che le FARC riescano a tornare quelle di un tempo. Per montare il loro apparato militare, oggi ridimensionato dopo il significativo indebolimento della guerriglia cominciata con il governo Uribe e gli accordi di pace, ci sono voluti 50 anni e sarà complesso riconquistare territori ora occupati da gruppi di trafficanti di droga e bande criminali. E il gruppo di Márquez non è che una minoranza.



Le reali ripercussioni di questa dichiarazione paiono marginali, ma il potere di propaganda enorme.

L’annuncio di Márquez avvantaggia infatti il governo di Iván Duque e la destra colombiana, grandi detrattori degli accordi di pace considerati una farsa, così come le FARC nuovamente in armi dimostrerebbero.

L’annuncio della rinascita danneggia dunque direttamente i settori della sinistra e dell’opposizione che stanno affrontando un processo elettorale, con centinaia di candidati registrati in centinaia di comuni da forze democratiche alternative come la Colombia Humana, il Polo, le FARC stesse, ecc. e che ora altro non possono che prendere le distanze da Iván Márquez e i suoi.

Inoltre, le dichiarazioni di Márquez hanno puntato nuovamente i riflettori sul Venezuela di Maduro, accusato dagli USA di essere parte attiva nel processo di riarmo delle FARC, aizzando ancora una volta l’opposizione filostatunitense nel paese che, con lo spauracchio del contagio ai paesi vicini, rinvigorisce l’astio verso il socialismo siglo XXI di chaveziana memoria.

Gli Stati Uniti, che considerano comunque le FARC un gruppo terrorista e non ne legittimano lo status di partito politico,  hanno anche interesse nell’estradare alcuni dei suoi esponenti, tra cui Jesús Santrich (presente nel video con Márquez), da processare per narcotraffico. Già l’amministrazione Obama, pur favorevole al processo di pace, contestò a Santos di aver trascurato la lotta al narco per raggiungere la pace con le FARC.

Non è bastata dunque la crescita economica né l’allineamento del governo alle logiche neoliberali e gli inequivocabili vincoli con gli USA a far sopire i venti rivoluzionari in Colombia. Le FARC, come molti dei movimenti paramilitari attivi nella guerra de guerrillias contro l’odiato vecino del norte, ancora ci parlano di mondi marginali, di sacche di resistenza ai processi globali, di scelte complesse che vanno oltre l’assoggettamento a dettami esterni. Del resto, se l’America Latina si è fatta conoscere al mondo, è proprio per questa sua (forse oggi considerata anacronistica e romantica) voglia di riscatto armato, ideale, che sembra ributtarci in un passato epico che invece si traduce in un presente drammatico. Si tratta di gente che, come si direbbe in gergo militare, vuole morire con gli stivali ai piedi.