Negli Stati Uniti, circa mille persone all’anno vengono uccise dalla polizia. Nel solo 2005 ben 15mila persone sono state uccise dalle forze dell’ordine: meno di 150 poliziotti sono stati accusati di omicidio. Evidentemente, benché la maggior parte di chi è rimasto ucciso fosse afroamericano, come ci ha spiegato nel corso di questa intervista Andrew Spannaus, giornalista e analista americano attivo in Italia e a livello internazionale, c’è un problema di brutalità e di violenza impunita che riguarda le forze dell’ordine. Come dimostrano il caso di Derek Chauvin, il poliziotto assassino di George Floyd, che aveva già avuto decine di segnalazioni per condotta violenta, e del suo collega Tuo Thao, di origini asiatiche, imputato per uso eccessivo della forza che se la era cavata in via stragiudiziale pagando una multa di 25mila dollari. Questa è la realtà americana. Le manifestazioni sono in gran parte pacifiche; in esse però, ci ha detto ancora Spannaus, si intrufolano gruppi anarchici e gruppi di estrema destra che fomentano le violenze e il caos.
Pare che il poliziotto omicida e la vittima avessero lavorato come buttafuori nello stesso locale, mentre uno dei poliziotti implicati è di chiare origini asiatiche. È davvero razzismo quanto succede in America, o siamo davanti a una polizia brutale e violenta a prescindere?
Questo è un tema molto importante. Un aspetto razziale c’è, perché le vittime della brutalità della polizia sono in numero maggiore afroamericani. Però c’è un problema di violenza della polizia che va oltre la differenza razziale. I problemi sono su vari livelli.
Quali?
Esiste da tempo una cultura di militarizzazione della polizia, che fa uso di attrezzature dell’esercito e di un addestramento di tipo militare. Quando poi si verificano incidenti, la polizia usa un atteggiamento opposto a quello collaborativo. C’è poi un sistema che protegge i poliziotti che usano la violenza. Ovviamente la maggior parte dei poliziotti sono brave persone che non usano questi sistemi, ma c’è un buon numero di essi che lo fanno, che hanno precedenti come Derek Chauvin. Il problema è che il sistema funziona su due livelli che li protegge e li lascia in ruolo nonostante episodi di violenza.
Come mai? Come accade questa protezione?
Prima di tutto attraverso la protezione di altri poliziotti e poi dei sindacati. Tra di loro gli agenti si proteggono, perché tutti hanno paura di sbagliare nel momento difficile e quindi prima di licenziare uno c’è da pensare quale sarà la reazione del sindacato dei poliziotti, che gioca un ruolo molto rilevante. C’è una difesa del poliziotto un po’ istintiva, si cercano di creare situazioni in cui il poliziotto non debba guardarsi le spalle.
Tutto l’opposto di quello che vediamo nei telefilm americani. E i tribunali? Lasciano correre?
I tribunali applicano dei principi che rendono molto difficile punire e condannare i poliziotti. È un sistema dove bisogna adottare il punto di vista del poliziotto.
Cioè?
Se il poliziotto può sentirsi minacciato allora ha diritto di reagire. Questo presso la Corte Suprema si chiama immunità qualificata, in questo modo diventa molto difficile dare la responsabilità a chi agisce male. I sindacati poi sostengono i politici e i politici vogliono il loro sostegno che è importante per essere eletti: in questo modo è difficile punire le mele marce.
Ma da quanto tempo è così? E chi fra repubblicani e democratici è a favore di questa linea?
Sono più i repubblicani ma non solo. Ad esempio ci sono due senatrici ex magistrati che stanno cercando di diventare la candidata vicepresidente di Joe Biden e in passato hanno attuato la linea dura contro la criminalità. I repubblicani come sempre propongono law and order, legge e ordine. Più o meno è dagli inizi degli anni 80 che esiste questa dottrina di difesa del poliziotto nel diritto civile.
Come sempre quando accadono episodi come l’omicidio di George Floyd le manifestazioni si trasformano in violenze e incidenti; è stata arrestata anche la figlia del sindaco di New York. Qual è il quadro della situazione secondo lei?
Le manifestazioni sono in buona parte pacifiche e vi partecipano neri, bianchi e ispanici. Non è una sommossa dei neri. Certo c’è una grossa percentuale di afroamericani. Il problema che si sta verificando come in altre occasioni è l’infiltrazione di gruppi che cercano la violenza, gruppi radicali di sinistra come gli Antifa (Azione Antifascista, un collettivo internazionale radicale presente in molti Paesi, dalla Germania al Regno Unito, dalla Svezia all’Italia fino agli Stati Uniti che si oppone ai neonazisti, al fascismo, ai suprematisti bianchi e al razzismo) e gruppi di estrema destra che creano caos per diffondere la violenza. I leader della comunità afroamericana sanno benissimo che questo non va bene, ma la situazione è difficile perché da una parte ci sono questi gruppi, dall’altra non vogliono delegittimare le proteste.
Trump sarà in grado di gestire la situazione? Ha lanciato messaggi molto brutali.
Trump ha fatto un primo commento sbagliato che ricordava episodi del passato, ha poi fatto un passo indietro ma vuole la linea dura. È la sua posizione politica e quella di molte persone spaventate. Ma essendo gli Stati Uniti uno Stato federale non ha il potere di gestire questa situazione, lo fanno i governatori, che possono chiamare la Guardia nazionale. Trump ha offerto l’assistenza dell’esercito ma la gestione del territorio avviene a livello locale. Il ruolo del governo è la risposta giudiziaria e istituzionale per proteggere i diritti e agire contro i poliziotti. Lo abbiamo visto negli anni 50 e 60, dove l’azione del governo ha fatto rispettare i diritti civili di uguaglianza.
Cambierà qualcosa nella corsa elettorale?
Cambia tutto in continuazione, Biden ha un deciso vantaggio, la crisi del virus ha creato esasperazione e questo non aiuta Trump che vuol far ripartire l’economia. Biden deve stare attento a non sbagliare, Trump non credo possa guadagnare qualcosa dalla situazione se non richiamare i repubblicani attorno a lui. Più la situazione è caotica più Trump è debole; la speranza per lui è che Biden faccia gaffe ed errori.
(Paolo Vites)