L’uomo per la soddisfazione dei propri bisogni utilizza una serie eterogenea di beni, dal cibo alle leghe metalliche, dalla plastica all’elettricità. Una modalità per misurare questo complesso e articolato sistema di beni, seppur con qualche approssimazione, è il valore energetico dei suoi componenti.

L’Unità di misura generalmente utilizzata a tal fine è la caloria. Una chilo caloria (kcal) è la quantità di calore necessaria a far salire di un grado la temperatura di un chilogrammo di acqua. Un chilowattora equivale a 860 chilocalorie e una British Thermal Unit (BTU) – acronimo reso famoso dalla pubblicità dei condizionatori – a 0,252 chilowattora.



Ipotizzando una dieta di 2.000 kcalorie al giorno, per sopravvivere l’ uomo deve produrre/assorbire almeno 2,32 Kwh. Sotto questo profilo, i primi 190 mila anni per l’homo sapiens-sapiens furono abbastanza duri. Se la natura di cacciatore-raccoglitore lo caratterizzava – diremmo oggi – come soggetto a basso impatto ambientale, lo rendeva però sicuramente dipendente dal territorio in cui risiedeva. In buona sostanza, come tutti i parassiti, beneficiava della prosperità del territorio ospite. Inoltre, le specifiche caratteristiche riproduttive del parassita uomo – che rendevano inabile al procacciamento del cibo la componente femminile della specie per lunghi periodi -, ebbero ripercussioni sociali ed economiche di non trascurabile impatto.



La componente femminile – con atavico pragmatismo – cercava di metter su famiglia con i migliori cacciatori-raccoglitori del luogo. La componente maschile – con analogo egoismo – cercava di assicurarsi che la produzione dei kwattora necessari al sostentamento familiare fossero destinati alla prosecuzione della propria e non altrui progenie. In buona sostanza anche i primi conflitti coniugali avevano un’evidente e preponderante matrice economica.

Per risolvere questo problema ci volle un’invenzione rivoluzionaria: l’agricoltura. La rivoluzione agricola – databile nell’8.000 a.c. – risolse molti dei problemi legati alla produzione, generando una profonda trasformazione della società. L’addomesticamento del territorio, degli animali e delle colture, determinò un eccedenza produttiva con straordinarie ricadute sociali. La rivoluzione agricola pose fine al nomadismo, rese necessaria la specializzazione delle attività e inventò il lavoro come attività distinta dalle attività direttamente necessarie alla sopravvivenza.



Il lavoro come attività specializzata, ebbe come naturale conseguenza la concentrazione dei nuclei familiari e l’incremento demografico nei territori addomesticati. La concentrazione di molti individui nello stesso luogo e la necessità che tali individui cooperassero tra di loro, rese indispensabile anche un’evoluzione della soluzione dei conflitti, attraverso l’abbandono di modalità “semplificate” – per lo più incentrate sull’eliminazione fisica del problema – e l’individuazione di attività regolatorie più articolate affidate a esperti magistrati, in genere sacerdoti e sciamani.

Con la rivoluzione agricola, la società monofamiliare si trasformò in una comunità che rese la convivenza più complessa, più interconnessa e interdipendente. La situazione socio-economica, pur beneficiando dell’evoluzione delle tecniche, dello sviluppo dei trasporti, dei commerci, del diritto e della moneta, restò pressoché stabile nei suoi fondamentali sino al XVIII secolo.

Lo sviluppo culturale orientato alla scienza e alle tecniche, innescato dal secolo dei lumi, produsse la seconda rivoluzione economica: la rivoluzione industriale. L’utilizzo del vapore prima e dell’elettricità poi, determinò in pochi anni una straordinaria capacità di produzione di energia. L’eccedenza energetica determinò un incremento della ricchezza, della velocità delle comunicazioni, dei trasporti e dei cambiamenti sociali.

Lo sviluppo culturale portò in dote la rivoluzione francese che innescò un rovesciamento sociale mediante l’integrale sostituzione dell’antica aristocrazia terriera con la borghesia produttiva, portatrice di nuovi valori. I valori borghesi favorirono la nascita del capitalismo e delle conseguenti rivoluzioni sociali del XX secolo.

Con la “modernità” e il capitalismo nacque anche il concetto che il tempo è un valore economico. Il tempo è denaro. Il futurismo consolidò – sotto il profilo culturale – la rappresentazione dell’idea che la velocità è un valore, anche estetico. In buona sostanza si avviò un processo di accelerazione del tempo, destinato ad avere una influenza notevole nello sviluppo sociale ed economico degli anni a venire.

Lo sviluppo del calcolo combinatorio e l’elettricità determinarono la nascita dell’informatica e della terza rivoluzione: la rivoluzione digitale. La rivoluzione digitale e la sua conseguenza più evidente “l’accelerazione del tempo”, ha generato in pochi anni cambiamenti epocali in tutte le componenti umane: lavoro, produzione, economia, finanza, rapporti sociali che hanno avuto come pegno un vero e proprio spaesamento, quello che Bauman ha mirabilmente indicato come la società liquida.

Se per lo sviluppo della rivoluzione agricola e delle sue trasformazioni sociali ed economiche abbiamo impiegato 190 mila anni, per la rivoluzione industriale ne sono trascorsi 10 mila e in poco meno di 100 anni la rivoluzione industriale ha prodotto la rivoluzione digitale che in pochi decenni ha profondamente cambiato l’assetto e il sistema sociale del mondo, appare più chiaro come l’accelerazione dei cambiamenti ha reso in pochissimo tempo obsolete competenze, filiere produttive, abitudini sociali e meccanismi regolatori.

Globalizzazione, fine del lavoro, tecno-finanza e società liquida, non occorre scomodare Zygmunt Bauman per evocare parole che spaventano, terrorizzano o nel migliore dei casi “arrabbiano”. La globalizzazione dell’informazione, della tecnologia e della finanza, ha reso dimostrabile “l’effetto farfalla”, ispirato dallo scrittore di fantascienza Ray Bradbury e anticipato nel 1950 dal grande – oggi diremo trans-gender -, Alan Turing che per lavoro faceva il matematico, per hobby l’enigmistico a uso bellico, che si trovò, suo malgrado, ad essere associato all’invenzione del computer. Insomma, un tipo alquanto in gamba che analizzò la “dipendenza sensibile” ovvero uno dei primi fondamenti delle teorie del caos.

In buona sostanza, nel terzo millennio un battito d’ali di farfalla in Brasile può realizzare un tornado in Texas, usando uno dei paradossi più famosi delle cosiddette teorie del caos. Così, se la tecno-finanza ha stravolto il concetto stesso di moneta e di tempo e la tecnologia ha storicizzato il lavoro tradizionale, la distribuzione e il commercio mondiale e con esso anche i concetti di mobilità e di urbanistica. Se più del voto democratico, spread e rating, attraverso i mercati esprimono promozioni e bocciature di intere classi dirigenti e politiche, dobbiamo prendere atto della realizzabilità, non paradossale, dell’effetto farfalla. Insomma, un colpo di tosse in Cina può determinare la più grande recessione economica mondiale degli ultimi 70 anni.

Come si risponde alle sfide del caos, dell’interdipendenza e dell’accelerazione del tempo? Certamente non con gli stessi strumenti di analisi e l’impostazione dei problemi della società precedenti all’accelerazione del tempo. In effetti, se nel breve periodo la scelta più semplice (e forse obbligata) è quella del trade off, e, dell’antagonistico o/o, la costruzione del successo passa per un diverso approccio sul concetto di tempo che offre la capacità di coniugare gli opposti. Dal o/o al e /e. I Paesi occidentali dovranno apprendere dal pensiero orientale l’approccio circolare al tempo e alla soluzione dei problemi.

Come fecero in Toyota negli anni ’80, superando la teoria dei tempi e dei metodi, il Taylorismo, o più appropriatamente il Fordismo, per rimanere nel campo della metafora automobilistica e lo fecero attraverso l’innovazione organizzativa e l’utilizzo dell’automazione e dell’informatica. L’approccio produttivo del Fordismo presupponeva un modello o/o, ovvero: potevi avere un prodotto standard a basso costo – la mitica Ford modello T di colore nero – realizzando le straordinarie economie di scala derivanti dallo studio scientifico dei tempi e dei metodi o, alternativamente, un prodotto personalizzato e diversificato che però nel modello produttivo fordista si realizzava con un’inevitabile variazione incrementale dei costi. In effetti quel concetto produttivo (e modello) non riusciva a superare la logica degli opposti. Questo modello fu superato dal modello produttivo Toyota che – come il Fordismo ai suoi tempi -, fece scuola.

Cosa cambiarono in Toyota? Tutto. Innanzitutto, l’approccio con il tempo. È evidente che se io ho due opzioni al tempo zero, dovrò fare una scelta. Detto in termini semplici, se alle ore 20:00 ho due programmi alternativi, andare a mangiare una pizza con gli amici o andare al cinema con il coniuge, dovrò effettuare una scelta. Ma se ho più tempo per organizzarmi, alle 20:00 andrò a mangiare una pizza con gli amici e alle 21:30 potrò andare al cinema con il coniuge allo spettacolo successivo.

Banale? Non proprio, alla Toyota presero la banalità sul serio. Compresero che, se:

– progetti delle auto in moduli preassemblati, riduci i tempi di costruzione;

– reingegnerizzi la catena di montaggio separando nelle fasi finali le linee di personalizzazione delle auto (cd mushroom-concept), elimini i tempi di set-up della catena;

– costruisci rapporti cooperativi con i fornitori anche attraverso la previsione di stabilimenti produttivi negli stessi luoghi, sei in grado di generare riduzione dei costi di trasferimento, di magazzino e di conseguenza finanziari;

– colleghi telematicamente la rete vendita e lo stabilimento produttivo elimini i tempi di trasferimento dell’ordine, assicuri una programmazione degli acquisti e di conseguenza riduzione di magazzini, costi e tempi.

La Toyota rivoluzionò il Taylorismo, inventando la produzione just in time e la total quality realizzando economie di scala – paragonabili a quelle delle teorie tayloristiche dei tempi e dei metodi -, senza rinunziare alla diversificazione dei prodotti. L’esperienza giapponese insegnò al mondo che si poteva passare dal modello o/o a quello e/e.

Cercando di tirare le somme, cosa ci insegna questa ricostruzione che passa dal tempo naturale della rivoluzione agricola, alla velocità del tempo analogico della rivoluzione industriale e ci consegna all’accelerazione del tempo digitale? Anzitutto che alle sfide che ci pone la società digitale, la società della connessione e conseguentemente dell’interdipedenza, non si può reagire con gli strumenti delle società precedenti pena la crisi, condizione mirabilmente descritta da Gramsci laddove sosteneva che “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore ed il nuovo non può nascere”.

Allo spaesamento delle società liquide e del tempo accelerato, alla maggiore fragilità delle società interconnesse e interdipendenti, si risponde con la fiducia e la comprensione profonda delle costanti dell’uomo e del suo tempo. In questo quadro anche le moderne scienze biologiche ci forniscono conferme e modelli di riferimento connessi con il concetto di tempo.

In effetti se nel breve periodo sopravvive l’organismo più forte – concetto associato impropriamente al darwinismo – nel lungo periodo la supremazia biologica l’assume la capacità di adattamento e la cooperazione che rappresentano anche in natura le chiavi vincenti di ogni organismo biologico o sociale. Ancorché come sosteneva G. B. Shaw “l’uomo ragionevole si adatta al mondo. L’uomo irragionevole insiste nell’adattare il mondo a sé. Quindi tutto il progresso dipende dall’uomo irragionevole”, gli fa eco Alan Kay – l’inventore del computer portatile -, che ci ha insegnato che “the best way to predict the future is to invent it”.