“Satan, your kingdom must come down”, Satana il tuo regno deve crollare. Fa sorridere che l’uomo che canta questo antichissimo spiritual che si perde nella notte dei tempi sia lo stesso che è stato accusato tante volte ai tempi dei Led Zeppelin, insieme al suo compagno Jimmy Page, di satanismo, messaggi demoniaci incisi al contrario, incitamento al male. Oggi il 75enne Robert Plant, in splendida forma fisica, dimostra come quelle accuse fossero espressione di un moralismo bigotto che temeva la musica rock, perché quello che è sul palco è un signore gentile che lancia piuttosto messaggi di amore universale e bontà. Lo fa facendosi accompagnare da un piccolo ensemble di matrice folk, ma anche psichedelica, i Saving Grace (la grazia salvifica, non a caso) composto dalla cantante e fisarmonicista portoghese Suzi Dian, Oli Jefferson alla batteria e due straordinari polistrumentisti, Tony Kelsey (chitarre acustiche ed elettriche) e Matt Worley (banjo, chitarre elettriche, acustiche e baritono, cuatro).
Il messaggio di questo straordinario spettacolo che dimostra come si possa invecchiare con dignità è una sorta di lezione storico-musicale che va a toccare i quattro angoli della immensa bellezza che l’epoca d’oro della musica ha distribuito, dalle radici blues, folk e spiritual alla psichedelia di fine anni sessanta arrivando ai giorni nostri con il tributo agli esponenti del post rock, i Low. In mezzo c’è davvero di tutto: i Moby Grape, Leon Russell, Donovan, Los Lobos e Richard Thompson. E naturalmente anche i Led Zeppelin. Sebbene sul palco Plant paia un compassato gentleman dai lunghi capelli ora bianchi, dentro di lui scorre ancora quell’energia rock che negli anni 70 aveva sbalordito il mondo. Basta un accenno al quel repertorio (Friends, The rain song, Four stick) che il Teatro Arcimboldi di Milano erutti in standing ovation incontenibili mentre lui a stento cerca di domare quella forza che lo aveva reso il più grande frontman rock della storia. Ha in pugno la platea e si deve moderare, perché la bestia può fuggire di nuovo, anche a 75 anni, dimostrazione che certe doti le porti nel sangue e non le costruisci con astuti impiegati di marketing come si fa oggi.
Doti che, come spiega lui stesso, nacquero quando da ragazzino inglese ascoltò i dischi di “afroamericani del Delta del Missisippi”, gente come Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Robert Johnson e tanti altri. Ed ecco sfilare una dopo l’altro brani che avrebbero potuto essere contenuti nell’Anthology of American folk music, la bibbia di registrazioni ante guerra che formò una generazione, quella di Bob Dylan: Gospel plow, The Cuckoo, la già citata Satan, your Kingdom must come down, As I roved out, Gallows pole.
Rilassato e compiaciuto, “Percy” scherza con il pubblico milanese ricordando quella volta “nel 1970 o giù di lì quando voi spettatori eravate arrabbiati con la polizia e nell’aria c’erano i gas lacrimogeni” dice, ricordando il disastroso concerto dei Led Zeppelin a Milano nel 1971 interrotto da violenti scontri fra auto riduttori e polizia, la prima e unica volta che si esibirono in Italia. Ma erano altri tempi, sorride.
L’impatto musicale è straordinario, tra le corde di banjo, chitarre acustiche, fisarmonica, la bella voce di Suze, il drumming elaborato e ficcante di Oli Jefferson. Ma non c’è solo questo. Plant vuole pagare tributo anche a quella stagione irripetibile che fu la psichedelia dolce e vibrante della generazioni hippie, ed ecco la struggente e delicatissima It’s a Beautiful day dei Moby Grace e poi Chevrolet, un blues reso famoso dal re degli hippie, lo scozzese Donovan, ma anche cose più recenti come Angel dance dei chicani Los Lobos, Out in the Woods del re del Southern soul Leon Russell e infine l’inevitabile tributo a colui che con i Fairport Convention sdoganò il folk rock inglese, Richard Thompson, con la sua House of cards.
Plant ha portato gli spettatori dalle rive del Mississippi ai locali fumosi di Chicago e alle strade di Soho a Londra, nei club dove si forgiò una generazione. È un viaggio magnifico, vibrante, pieno di visioni, colori, momenti troppo belli perché vengano dimenticati e gli siamo grati per la sua volontà di tener viva questa storia. Portando tutto a casa nel finale con una resa a-cappella di tutti i musicisti sul palco di un altro antico tradizionale (la facevano anche i Grateful Dead alla fine dei loro concerti), And we Bid you goodnight, vi auguriamo buonanotte. Come dire, ci vediamo in giro in qualche pub. Perché “I love you, but Jesus loves you the best”, vi voglio bene, ma Gesù ve ne vuole di più. E tanti saluti al satanismo.
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