Questo non è un articolo come i tanti, belli, che ho letto in questi giorni su “Perri”. Io desidero solo ricordare Roberto Perrone per quello che è stato per me e per tanti amici in questi anni. Ho conosciuto Robi nel 1973: io quinta ginnasio, lui prima liceo, ogni tanto qualche risata nel corridoio del Liceo classico Delpino a Chiavari. Ma è stato quando è cominciata la mia avventura in Gioventù Studentesca che io e Robi siamo diventati  amici.



Condividevamo il tifo per il Genoa e insieme andavamo allo stadio nella mitica “Nord” accanto al tamburo. Tomasello sul Corriere della Sera ha scritto che il suo essere giornalista “non era solo un mestiere, ma un modo di vivere” e in effetti nella vita, e con la sua vita, aveva già anticipato il lavoro di giornalista sportivo.



Quando, appena iniziate le superiori, venne invitato da una sua ex insegnante delle medie a conoscere un gruppo di giovani cattolici che si radunava presso l’Istituto degli Emiliani a Rapallo, non sapeva cosa avrebbe trovato, ma era un ragazzo curioso e non si lasciava scappare le occasioni, come mi raccontava la nostra comune amica Marina. Trovò tra l’altro un campetto di calcio e questo, probabilmente, fu sufficiente a farlo restare in quel gruppo di giovani, che sarebbero diventati i suoi amici per la vita.

Il calcio, prima di raccontarlo, lo aveva giocato. Era un grande amore. A scuola, in seconda liceo, scriveva alla lavagna la formazione e spiegava la tattica in vista di una sfida con un’altra classe, sotto gli occhi attoniti e sbalorditi di un’insegnante di filosofia. In realtà era anche studioso, la curiosità sulla vita l’aveva anche per ciò che studiava e alla maturità aveva preso il voto più alto. Era appassionato di storia e letteratura e fu in quel periodo del liceo che cominciò a scrivere testi teatrali che metteva in scena con lo storico gruppo di Rapallo nelle feste popolari. Il primo, “La favola di Arturo”, girò tutta la Liguria. Scriveva e recitava e in quei testi c’erano un’arguzia, un umorismo e una lieve pensosità che non permettevano di rimanere in superficie.



La quotidianità vissuta insieme negli anni di Gs e del Clu, le montagne, le serate, gli spettacoli, le partite di calcio, dove dava il massimo, l’impegno in università nei duri anni Settanta a Genova, ci hanno reso capaci di vivere fino in fondo, rischiando tutto nelle cose che sceglievamo e che avremmo scelto in futuro.

Perri aveva un carattere forte e non certo remissivo, ma se voleva bene era impagabile. Lo ha dimostrato in questi anni l’appuntamento che organizzava una volta all’anno con i compagni di classe e gli amici più cari della Liguria. Spesso era l’occasione per raccontare qualcosa della sua esperienza, per degustare qualcosa di speciale o per presentarci il suo ultimo libro. In ogni caso era diventato un appuntamento per tutti imperdibile.

Noi due abbiamo condiviso anche il lavoro nel mondo dello sport: io come medico, lui come giornalista e scrittore. È venuto due volte nel Tigullio a sostenermi come moderatore negli incontri sullo sport da me organizzati invitando personalmente alcuni ospiti. La condivisione e i giudizi schietti, il confronto sincero, la storia nel movimento di Cl, l’amicizia e l’affetto con la sua famiglia mi hanno reso compagno Perri per cinquant’anni. Il dolore che provo è immenso, ma la gratitudine per averlo avuto come amico sovrasta questo dolore. Possiamo vivere “il centuplo quaggiù”: il rapporto con Perri me lo ha sempre confermato.

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