Dopo aver attaccato Piercamillo Davigo e Luca Palamara, lo storico procuratore di Milano Alfredo Robledo torna ad occuparsi di Piero Amara, l’avvocato siciliano che ha parlato della loggia Ungheria. Prima si parlava dei verbali consegnati dal pm Paolo Storari all’ex consigliere del Csm, ora di un processo dove l’accusa ha nascosto delle prove agli imputati. Il riferimento è al processo sul giacimento nigeriano Opl 245, con Eni e Shell assolte dal reato di corruzione internazionale in quanto il fatto non sussiste. «Era chiaro che il problema vero era il processo all’Eni. Perché se avessero esibito gli atti che riportavano le dichiarazioni di Amara nel processo sarebbero stati apportati atti alla difesa. Hanno commesso una scorrettezza enorme», dichiara Robledo a La Verità. Non si ricordano casi simili, neppure la storica toga meneghina riesce a farlo. «È evidente che Francesco Greco sapeva benissimo cosa stava succedendo, è pacifico che lo sapesse. Più che altro mi domando se il giovane Spadaro l’abbia ben compreso. Non mi sarei mai aspettato un fatto del genere».



ROBLEDO VS DAVIGO “NON DICE LA VERITÀ”

Un fatto grave, non si parla solo di violazione dell’etica professionale, perché per Alfredo Robledo si può configurare una ipotesi di reato. Intanto sono già pronte le cause di risarcimento, ma per l’ex procuratore di Milano il motivo è un altro. «In realtà costituisce una sorta di assicurazione. Chi vuoi che nei prossimi anni, con questi presupposti, si mette a fare un processo contro l’Eni?». Robledo, stuzzicato poi su Piercamillo Davigo che aveva definito “Pieranguillo”, è tornato alla carica dell’ex consigliere del Csm: «Il punto è che secondo me Davigo non dice la verità. Ha citato a giustificazione del suo comportamento due circolari, nessuna delle quali c’entra con il fatto di aver ricevuto i verbali da Storari». Inoltre, gli rimprovera di non aver fatto nulla di quello che dice la legge, consentendo che la vicenda Amara andasse avanti per mesi. Di sicuro non finirà a tarallucci e vino: «È troppo grave». Di fatto, questo vicenda della procura di Milano per lui «non è altro che il naturale epilogo di una Procura i cui vertici erano stati scelti dalle correnti mediante il solito accordo con Palamara».

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