Venticinque anni fa, nel 1995, agli inizi della rivoluzione di Internet, uno dei più affermati saggisti americani, Jeremy Rifkin, scrisse un libro con un titolo terribilmente esplicito: “La fine del lavoro”. La teoria di Rifkin, peraltro con almeno due secoli di ritardo rispetto alla prima vera rivoluzione industriale, era che la civiltà delle macchine avrebbe preso il sopravvento e che il lavoro nel senso più tradizionale del termine e cioè destinato alla produzione di beni e servizi, sarebbe presto finito.
Una profezia che non aveva il pregio della novità: già all’inizio del XIX secolo, infatti, l’introduzione delle macchine nelle industrie tessili inglesi provocò un forte movimento di opposizione che prese il nome di luddismo, dall’operaio Ned Ludd che nel 1779 avrebbe preso a martellate un telaio meccanico in segno di protesta.
In realtà, la meccanizzazione prima e l’automazione po, non hanno eliminato il lavoro. L’hanno invece pur se lentamente e anche grazie ai movimenti sindacali, reso più umano, meno ripetitivo, con orari sempre più ridotti e diritti sempre più rispettati. Ma la quinta rivoluzione industriale, quella dei robot e dell’Intelligenza artificiale, rischia di essere un nuovo salto di qualità in un mondo alle prese con l’instabilità finanziaria, i cambiamenti climatici e improvvise emergenze, come l’epidemia invisibile del nuovo coronavirus.
“Questa volta potrebbe essere diverso” è infatti l’introduzione dell’ultimo libro di Marco Magnani (“Fatti non fosti a vivere come robot”, Ed. Utet, pagg. 270, € 15), un’analisi efficace e costruttivamente problematica sulle grandi tendenze della società contemporanea nella particolare ottica dei rapporti tra l’uomo e l’innovazione. Magnani, economista, docente, editorialista, divide il suo tempo tra l’Italia e gli Stati Uniti e quindi può mettere a frutto una visione e un’esperienza diretta delle analisi e delle realizzazioni dalle due parti dell’Atlantico.
Modi, tempi e opportunità delle innovazioni sono così spiegati in maniera semplice, ma ugualmente approfondita ponendo chiaramente in luce, fin dalle prime pagine, lo stretto rapporto tra rivoluzione tecnologica ed equilibrio sociale. Sottolineando come sia particolarmente sotto pressione il tradizionale modello del capitalismo liberale, che ha di fronte la difficile necessità di coniugare la crescita con i nuovi indispensabili obiettivi di equità sociale e di sostenibilità ambientale.
La speranza è quella che nemmeno la rivoluzione di Internet e delle comunicazioni, nemmeno la globalizzazione e la dirompente crescita dei Paesi emergenti, elimineranno il lavoro nella vita delle persone: non solo come elemento indispensabile per conseguire un reddito, ma anche e soprattutto come espressione della propria creatività e della partecipazione di ciascuno al benessere collettivo.
Certo la dimensione del lavoro che affrontano i giovani di oggi è diversa da quella di soli vent’anni fa e probabilmente i cambiamenti saranno sempre più rapidi in futuro. In tante prospettive. Le aziende moderne sono meno rigide che nel passato, la vecchia logica delle mansioni viene gradualmente integrata con quella delle competenze, l’orario rigido diventa flessibile, i percorsi di carriera privilegiano il merito rispetto all’anzianità.
Con un’immagine molto significativa. C’è stata per decenni una divisione rigida tra le categorie di lavoratori: da una parte le tute blu, gli operai, gli addetti alle mansioni esecutive, dall’altra i colletti bianchi, gli impiegati, gli occupati nelle posizioni di concetto. È una divisione che ha sempre meno ragion d’essere. Perché esistono un’infinità di lavori manuali altamente specializzati ed è peraltro vero che i più moderni operatori della rete non sono certo distinguibili per il loro abbigliamento.
E così se il lavoro si è sviluppato anche con la rivoluzione industriale del vapore nell’Ottocento, con quella dell’elettricità e del motore a scoppio del Novecento, continuerà a svilupparsi anche nell’era di Internet, della banda larga, dei big data. Ma saranno necessarie scelte coraggiose di politica economica, soprattutto nel campo dell’istruzione e della formazione. Così come ipotesi innovative come suggerisce Magnani: per esempio il “prestito di cittadinanza” per aiutare i giovani in una nuova imprenditoria resa possibile dalla potenzialità della rete e dei nuovi strumenti. Perché l’innovazione può continuare a creare lavoro più di quanto ne distrugge, perché la crescita non solo materiale può rispondere alle nuove esigenze, perché i nuovi parametri della sostenibilità possono rendere possibili nuovi obiettivi sul fronte della qualità della vita. Nella sfida tra uomini e robot possono esserci due vincitori