La seconda e la terza nuova produzione del Rossini Opera Festival (ROF) – la farsa in un atto del 1813 Il Signor Bruschinoe l’opera seria del 1815 Elisabetta, Regina d’Inghilterra– dovrebbero essere uno spunto per una riflessione seria sui pregi e sui limiti del regietheaterovvero teatro di regia in cui il direttore dell’azione scenica (spesso autore anche di scene e costumi) diventa il vero protagonista della produzione, spesso più del direttore d’orchestra e dei cantanti. Ricordiamo che ai tempi del melodramma italiano dell’Ottocento e dell’opera verista della prima metà del Novecento, il direttore aveva di solito unicamente il ruolo di attuatore delle “disposizioni sceniche” del librettista e del compositore. Solamente negli ultimi decenni del Novecento, il regietheaterè diventato importante prima in Germania e poi nel resto del mondo. Si è anche cominciato a parlare de La Traviata Luchino Visconti (piuttosto che di Giuseppe Verdi) e de La Bohémedi Franco Zeffirelli (piuttosto che di Giacomo Puccini). I lettori sanno che sono favorevole al regietheater, e anche al cambiamento di luogo e di epoca dell’azione, sempre che sia rispettoso della partitura e delle idee di fondo del lavoro.
Il ROF è stato il festival italiano di musica lirica che più ha puntato sul regietheater(spesso con successo) contribuendo a lanciare registi come Damiano Micheletto e riportando in Patria registi come Giancarlo Del Monaco (di cui ricorda ancora un grandissimo non convenzionale Otello)-
Dopo la grande inaugurazione con Moïse et Pharaon con una regia magistrale di Pier Luigi Pizzi, il ROF ha mostrato nuove produzioni de Il Signor Bruschinoe di Elisabetta, Regina d’Inghilterr“, affidate a registi che, a torto e a ragione, si ritengono innovatori. Pizzi innovatore lo è stato e lo è ancora a 91 anni e non ha nessuna esigenza di farsi ritenere tale.
Il Signor Bruschino fu all’epoca un clamoroso insuccesso, ma dopo il debutto entrò felicemente in repertorio. Elisabetta, Regina d’Inghilterrafu, invece, un grande successo, soprattutto a ragione della protagonista Isabella Colbran che divenne la prima moglie del compositore; viene riproposta di rado, a ragione delle difficoltà vocali che comporta – la Colbran era un “soprano anfibio” in grado di svettare acuti strepitosi e di scendere a un registro quasi da contralto.
Per ambedue i lavori, si è fatto perno sul regietheater. E non ha fatto bene a nessuna delle due produzioni. Ero in sala alle anteprime del 7 e dell’8 agosto.
“Bruschino” è un piatto offerto spesso dal Festival. Questa è credo la quarta produzione, una joint venture con il Teatro Comunale di Bologna e la Royal Opera House di Muscat. È una farsa semplice che sarebbe bello vedere ambientata, come da libretto, in un maniero di inizio Ottocento. Alcuni anni fa, una produzione del ROF portava la vicenda in un centro commerciale-parco di divertimenti a tema (rossiniano) dove turisti, presumibilmente anglo-americani o dell’Europa settentrionale, assistono a una prova generale della farsa. Era uno spettacolo giovane indirizzato ai giovani. La regia era curata dal collettivo Teatro Sotterraneo. Le scene e i costumi dell’Accademia delle Belle Arti di Urbino. Un buon regietheater.
In questa produzione, il duo Barbe & Doucet sposta la storia in un veliero all’inizio del Novecento. Il protagonista, Gaudenzio, che dovrebbe un anziano voglioso di giovani donne, ha le belle ed eleganti fattezze di Giorgio Caoduro (un ex allievo dell’Accademia Rossiniana, oggi uno dei migliori baritoni di coloratura su piazza). Inoltre, l’azione si svolge quasi interamente su un lato del palcoscenico, Dato che, per le restrizioni Covid, l’orchestra è in platea e il pubblico nei palchi (due persone per palco), solo metà degli spettatori vede l’azione scenica che si sviluppa in gran parte sulla banchina piuttosto che sul veliero e sulla scialuppa accanto al vascello. Tutti gli spettatori hanno diritto, specialmente in una farsa, di sapere cosa succede in scena. Barbe & Doucet affermano che hanno concepito lo spettacolo prima del Covid. In un anno e mezzo, non sono riusciti a tararlo per tenere conto della nuova situazione?! Sarebbe auspicabile che rivedessero la loro regia prima di portare lo spettacolo a Bologna e a Muscat. Eviterebbero le reazioni gelide che ha avuto il loro “Pelléas”a Parma la primavera scorsa.
Fortunatamente c’è la musica di un Rossini giovane e pieno di brio. Molto buona la Filarmonica Gioacchino Rossini diretta da Michele Spotti. Nel cast vocale, primeggiano Giorgio Caoduro e Pietro Spagnoli. Di rilievo, Marina Monzò, Jack Swanson e Manuel Amati.
La regietheaterha, invece, reso difficilmente correggibile Elisabetta, Regina d’InghilterraL’autore della regia è Davide Livermore. Le scene sono di Giò Forma, i costumi di Gianluca Falaschi, le luci di Nicolas Boven e gli ossessivi video di D-Work. La produzione è una joint venture con il Teatro Massimo di Palermo.
La vicenda è quella consueta dei tristi amori tra Elisabetta e Leicester, negli intrighi di Corte. Il finale è lieto, in linea con la prassi dell’opera seria dell’epoca. Rossini doveva comporre il lavoro in tempi brevissimi e quindi fece ampio uso di “autoimprestiti”, ossia di brani presi da altri suoi lavori e riciclati.
Il problema non è lo spostamento dell’azioni agli anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, ma il fatto che la vicenda, peraltro molto drammatica e pre-romantica, viene proposta come una parodia di una serie televisiva quale “The Crown” o “The Royals“, immergendo per di più il palcoscenico di video di cattivo gusto e costringendo i cantati a cantare in posizioni inconsuete: ad esempio, il tenore protagonista deve cantare parte della propria aria principale, iniziando steso per terra. L’intento era forse quello di far ridere.
In passato, Livermore ha dato al ROF buone prove (ad esempio Ciro in Babilonia), ma anche spettacoli discutibili (ad esempio, Demetrio e Polibio). Visti anche gli esiti della recente La Bohème romana farebbe bene a concentrarsi sul suo nuovo incarico di direttore del Teatro Nazionale di Genova.
La parte musicale? L’orchestra della Rai, diretta da Evelino Pidò, è stata meno brillante che in Moïse et Pharaon. I maligni hanno detto che era distratta (e sconcertata) da ciò che avveniva in scena, nonché dai video.
La protagonista non era un “soprano anfibio”, ma il mezzosoprano francese, Karine Deshawes, in difficoltà con gli acuti ma molto abile nella coloratura. Il primo tenore era il russo Sergey Romanovsky, un saldo registro di centro e volume generoso. Il soprano era la georgiana Salome Jicia, un soprano di coloratura uscito dall’Accademia Rossiniana, spesso presente al ROF, ma di cui ricordo una indimenticabile La straniera a Firenze. Barry Banks era il secondo tenore, un lirico di coloratura nel ruolo del “cattivo”. Bravi Marta Pluda e Valentino Buzza. Con una regia meno pretenziosa e, soprattutto, più rispettosa di Rossini, avrebbero tutti reso meglio e di più.
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