“Moïse et Pharaon” ha inaugurato il Rossini Opera Festival (ROF) il 9 agosto. Questa recensione si basa sull’anteprima del 6 agosto, a cui è stata ammessa la critica musicale. Infatti, a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia, quest’anno il ROF ha potuto vendere meno della metà dei posti disponibili. E dire che, come per il festival estivo di Salisburgo, per il ROF, che si è imposto come uno dei maggiori e più richiesti festival operistici europei, la domanda di biglietti è di solito pari al doppio della capacità e circa la metà è di stranieri.
Nel catalogo rossiniano, “Moïse et Pharaon” è un’opera raramente rappresentata, principalmente a ragioni degli alti costi di produzione che comporta (grande orchestra, grande coro, corpo di ballo, “effetti speciali” per le piaghe imposte all’Egitto, traversata del Mar Rosso che si richiude causando l’annegamento delle armate egiziane).
In primo luogo, l’edizione francese integrale (nella partitura dell’editore Troupenas) è stata eseguita poche volte. Oltre a varie esecuzioni in concerto, si devono contare almeno quelle, dirette da Sarah Caldwell, a Boston e Philadelphia negli anni Settanta. A Pesaro è stata messa in scena nel 1997 dal compianto Graham Vick con in buca l’allora giovanissimo Jurowski. Nel 2003 e nel 2010, Riccardo Muti l’ha presentata per l’inaugurazione rispettivamente del Teatro alla Scala e del Teatro dell’Opera di Roma, In queste due occasioni, e in una produzione per il Festival di Salisburgo nel 2009, l’approccio di Muti non è stato filologico: è stato tagliato il “cantico di ringraziamento” finale e l’opera terminava in diminuendo dopo l’annientamento degli egizi da parte del Mar Rosso. Occorre dire che non pochi critici musicali preferiscono un finale “alla Muti”.
In secondo luogo, “Moïse” è opera sì importante, ma non uno dei grandi capolavori rossiniani. Così come “Le siège de Corinthe” è una pallida copia del “Maometto II” napoletano, “Moïse” mostra una vena stanca rispetto al di gran lunga superiore, sotto il profilo sia drammaturgico sia musicale, “Mosè in Egitto”, anch’esso partenopeo. Rossini aveva 35 anni quando compose “Moïse”, ma era già affaticato da una vita artistica troppo veloce, afflitto dalla morte della madre (a cui aveva un attaccamento morboso), in preda ai prodromi dell’ipocondria che lo avrebbe tormentato per almeno due lustri, alla ricerca di nuovi percorsi. “Le conte Ory”, opera erotica di un 36enne pieno di brio, e “Guillaume Tell”, capolavoro lanciato verso l’avvenire, erano tracciati di cui, però, Moïse” aprì solo il solco; Rossini si mise, di fatto e (dopo una lunga vertenza giudiziaria) di diritto, a 37 anni in pensione e ci restò per circa un quarantennio.
Tutto ciò che era compatto (e perciò efficace) in “Mosè” viene dilatato, a momenti strascicato, in “Moïse”. La mirabile scena iniziale viene annacquata, e trasportata al secondo atto. L’intreccio amoroso acquista, inutilmente, preminenza. Una sola innovazione di rilievo: come in “Le siège”, e in linea con l’usanza francese dell’epoca, è il popolo (e quindi il coro) che diventa protagonista, anticipando il “Guillaume Tell” ma rendendo ancora più monocorde la figura del comandante supremo degli ebrei. Inoltre, l’orchestrazione è di raro spessore (quasi ai livelli di “Idomeneo” di Mozart).
Ciò detto sui limiti della drammaturgia e della partitura di “Moïse”, il ROF ne ha presentata un’edizione di lusso che speriamo venga ripresa da altri teatri. In primo luogo, Pier Luigi Pizzi, a 91 anni offre un grande spettacolo; con l’assistenza di Massimo Gasparon ci porta in un Egitto stilizzato dove domina il color pastello con delicate sfumature. Le piaghe sono rappresentate con proiezioni anche esse stilizzate. Il coro (del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno) è, da vero protagonista, al centro dell’azione. Pizzi mostra, ancora una volta, le sua abilità nel gestire le masse e fare recitare i cantanti.
La smagliante scrittura orchestrale – si è detto – è l’innovazione di “Moïse” rispetto ad altre opere rossiniane e soprattutto al precedente “Mosè in Egitto”. Giacomo Sagripanti dirige con efficacia l’orchestra della Rai, mettendo in evidenza i colori e le sfumature, tra cui presagi di quella che sarebbe diventata la ricca orchestrazione del romanticismo.
Il cast vocale è di tutto rispetto, a cominciare dai due deuteragonisti. Un Roberto Tagliavini, a volte un po’ troppo spinto, è la guida degli ebrei. Nel ruolo del Faraone torna Erwin Schrott che lo aveva già interpretato con Muti alla Scala circa vent’anni fa. Nel gruppo maschile, Andrew Owens interpreta Aménophis, il figlio del Faraone innamorato dell’ebrea Anaï (Eleonora Buratto): voce ben impostata, ottimo fraseggio, acuti di rilievo ma volume piccolo che risaltava specialmente nei duetti con la Buratto (che si è meritata diversi applausi a scena aperta e ovazioni al calar del sipario). Applauditissime anche le alte due protagoniste femminili: Vasilisa Berzhanskaya e Monica Bacelli.
I lunghi balletti del terzo atto – all’epoca un requisito dell’Académie Royale de Musique (committente dell’opera) – rappresentano sempre un problema. La coreografia di Gheorghe Iancu li risolve in giochi ginnici nel Tempio di Iside.
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