I Rohingya, appartenenti ad una minoranza musulmana, continuano ad essere esposti da anni a persecuzioni e violenze. In Myanmar, ad esempio, non sono riconosciuti come cittadini e sono apolidi, ovvero privi di diritti. Gli scontri si sono intensificati nel 2012 dopo che alcuni membri della comunità sono stati accusati di avere violentato una donna buddista. Interi villaggi furono rasi al suolo, costringendo i suoi abitanti a fuggire. 



Il Paese è accusato di genocidio dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, ma i disagi non si fermano. Anche altrove. In India, dove molti si sono rifugiati, il Governo ha dichiarato che i Rohingya sono immigrati clandestini. Gli unici documenti che possiedono sono quelli rilasciati dall’Agenzia delle Nazioni Unite. Su 40.000 persone, soltanto la metà però ce li ha. È per questo che vengono arrestati e deportati con facilità. Da quando il BJP nazionalista indù del Primo Ministro Narendra Modi ha preso il potere nel 2014, la fede indù è diventata sempre più il fulcro dell’identità nazionale e la situazione è peggiorata.



Rohingya, minoranza musulmana vittima di persecuzioni: il futuro è buio

I Rohingya dunque sono sostanzialmente costretti a vivere in rifugi simili a campi di concentramento. In totale sono 600.000 in Myanmar, altre migliaia in Indonesia. Negli altri Paesi come l’India, dove sono liberi, il loro status illegale fa sì che non abbiano accesso al sistema educativo, alla sanità pubblica e ai posti di lavoro nel settore pubblico. Le difficoltà a sopravvivere a causa del basso reddito sono dunque enormi. Anche coloro che recuperano qualche soldi nei cantieri edili, non possono aprire un conto in banca né di conseguenza pacare le bollette. 



La maggior parte dei Rohingya dipende dall’aiuto delle organizzazioni umanitarie locali, per quanto riguarda il cibo, l’assistenza sanitaria e l’istruzione dei propri figli. A Nuova Delhi il Governo permette ai bambini rifugiati di frequentare le scuole statali, ma non negli altri Stati indiani. Alcuni insegnanti si recano dunque nei campi, ma non vengono pagati. Il destino è buio: questi piccoli non verranno mai riconosciuti come cittadini. “È meglio andare all’estero”, dicono le famiglie. La realtà però è sempre più difficile.