Dice: hai sentito la notizia? I Rolling Stones sono in città. Dico: no dai sono vecchi, poi i biglietti costano un casino, poi li ho già visti due volte.. poi…
Eccomi qui, mi sono svegliato all’alba per l’eccitazione (e per il caldo) pensando alla serata che mi attende. Sono un bravo boomer, sono nato lo stesso anno in cui i Rolling Stones si esibirono per la prima volta e come loro festeggiano il loro sessantesimo anniversario così anche io. Li seguo da quando ero un ragazzino, negli anni 70, quando erano tutto sesso droga e rock’n’roll tanto che un mio mio compagno di scuola un giorno mi si presentò dicendomi “Voglio fare come Keith Richards”. Io che ero (e sono) ingenuo pensai vorrà imparare a suonare la chitarra invece cominciò a farsi di eroina. Cattivi maestri? Non sapeva che Keith una volta all’anno andava in una costosissima clinica svizzera a farsi lavare il sangue per rimettersi a nuovo e soprattutto non doveva mendicare per strada le cento lire per una dose. Un po’ come la pizza di Briatore, c’è chi può e chi non può. Oggi pare che Richards abbia anche smesso di fumare sigarette e bere il suo amato Jack Daniel’s che nelle foto degli anni 70 vedevamo sempre scolarsi. E fisicamente a 78 anni di età sta meglio di noi baby boomer.
Così mi preparo, tiro fuori i miei jeans stracciati non perché alla moda ma semplicemente perché sono sempre gli stesi che indosso da dieci anni a questa parte, provo una t-shirt con la linguaccia di Mick comprata al concerto di Torino del 1990 (fu una gran figata, d’altro canto non avevano neanche 50 anni, ma non so perché li chiamavano già dinosauri de rock allora) ma ovviamente oggi che sono praticamente obeso devo buttarla via.
Poi prima di uscire do un’occhiata alla mail con le indicazioni su cosa portare al concerto: ok niente borse tropo grandi e computer, fotocamere, nessuna apparecchiatura di registrazione. Ci sta, è così da sempre da quando le registrazioni da parte del pubblico avviarono un mercato clandestino milionario. Giusto proteggere il proprio lavoro.
Poi leggo: nessun dispositivo di raffreddamento. ‘zzo in questi giorni la temperatura milanese è oltre i 35 gradi, percepita almeno 40 all’ombra,tipo offensiva del Têt in Vietnam nel 1968. Gemmie shelter, please. Vabbè niente ventilatore portatile. Continuo a leggere: “Nessun arma di qualsiasi tipo o qualsiasi cosa che possa essere considerata un’arma”. Mmmmm. Ok, non è Altamont, quando il povero Meredith Hunter venne ammazzato a coltellate sotto il palco dei Rolling Stones e episodi del genere ovviamente non ne vogliamo più. Continuo: “No contenitori alcol, nessun bicchiere, no lattine, borracce o bottiglie, nessun prodotto alimentare”. E stic…zzi penso. Poi mi ricordo che sono anni che le grandi multinazionali che organizzano concerti vietano di portarsi cibo e acqua ai concerti, in modo che possano venderli solo loro a prezzi quadruplicati birra calda e panini da vomito. Penso a quanto mi è costato il biglietto e cominciano un po’ a girarmi.
“Niente fuochi d’artificio, nessun gioiello..” ok ok. Ma… “niente droghe, sostanze illegali, sostanze psicoattive”… a un concerto dei Rolling Stones? Non dico brown sugar (che peraltro non cantano più perché il politically correct che ci blinda l’ha giudicata razzista e maschilista…), ma neanche qualche Mother’s Little Helper per sopportare il caldo? E se mi viene un 19th nervous breakdown?
Poi arrivo all’ultima ordinanza e penso di aver confuso questo foglio con quel che danno prima di entrare a San Pietro in Vaticano: “Qualsiasi articolo ritenuto inappropriato o offensivo, compresi gli indumenti”. Eh? No drugs, no sex? Che è rimasto dell’utopia con cui gli Stones ci hanno cullati per decenni? Rock’n’roll e basta? Speriamo. In fondo hanno quasi 80 anni… Tolgo i miei jeans stracciati e mi metto giacca e cravatta, quelli che ho preparato per l’ormai prossimo matrimonio di mia figlia. . Non vorrei essere mandato via. D’altro canto i prezzi di questo concerto sono da teatro alla Scala… Eppure.. una volta i Rolling Stones erano dei ribelli…
E poi.. e poi… Arrivo al Tempio del calcio e non c’è nessun controllo, solo mi chiedono se ho una pistola. E poi.. e poi… partono le prime potentissime note e mi ricordo perché negli anni 70 in America proibivano i loro concerti, perché considerati troppo violenti, roba da terroristi. E sì, gli Stones erano terroristi del rock’n’roll. Quella violenza trapela ancora oggi che sono quasi 80enni: non prendono prigionieri. E’ il riff di Street fightin’ man e improvvisamente ogni cosa svanisce. Dietro San Siro con il buio incipiente si è delineato uno scenario da paura: grattacieli illuminati sembra Gotham City, anche la Madonnina illuminata. Sto volando sopra San Siro. Si sente anche bene, strano per questo catino rimbombante. E mi ricordo chi sono io e chi sono loro: What can a poor boy do Except to sing for a rock ‘n’ roll band ‘Cause in sleepy London town There’s just no place for a street fighting man… Già, che altro può fare un povero ragazzo se non cantare in una rock’n’roll band? Nonostante l’età, nel cuore siamo ancora quelli, noi e loro, ragazzi in cerca di una ragione per vivere che hanno trovato accoglienza e riparo nel rock’n’roll.
Sfilano i pezzi, non li ho mai visti così in palla, nessuna nota sbagliata, nessuna stonatura, una energia da far paura: 19th Nervous Breakdown, Tumbling dice e una epocale Out of time, quando Jagger e soci facevano la linguaccia a chi non era al passo con i tempi. Lui ci incita a cantare, dirige un coro di 55mila persone, è bellissimo, e in quel momento capisco. Capisco che queste canzoni sono la nostra storia, le nostre vite, i nostri sogni e ringrazio di aver avuto gente come loro a farmi compagnia nella mia vita turbolenta, a prendermi per mano, capisco che nessuno ha scritti inni generazionali più potenti. E loro non si vergognano di cosa sono stati. Dead Flowers, lei in cantina che si fa di eroina e lui con strascicato accento country che le dice con disprezzo mandami fiori morti al mio matrimonio e io non mi dimenticherò di mettere rose sulla tua tomba.
Poi quell’incrocio di corde di chitarre ed è un canto disperato al desiderio di libertà che è destinato a rimanere tale, ma non importa: ho la mia libertà ma non ho molto tempo, cavalli selvaggi portatemi via.
Loro sono magnifici, i riff di Keith, i solo di Wood, la voce sempre sexy di Mick e anche il nuovo batterista, il fuoriclasse Steve Jordan (“E’ il nostro primo tour senza Charlie”, vuol dire che che ce ne sarà anche un secondo e magari un terzo? Certo, perché “il tempo è sempre stato dalla loro parte”), una sezione fiati straboccante, quattro coristi soul gospel da brivido. Anche la canzone nuova, Living in a ghost town, scritta durante la pandemia, fa la sua signor figura: un pezzo R&B e funk che macina come un treno con una sezione fiati in gran spolvero.
Loro non sono i portavoce di un mondo passato e finito, loro hanno sfornato un vocabolario zen buono anche fra mille anni: non puoi sempre ottenere ciò che vuoi, ma se insisti otterrai quello di cui ha bisogno, e ce lo fa cantare in 50mila come un coro di una chiesa pentecostale nel profondo sud degli States.
Oltre dieci minuti di sabba infernale con Midnight rambler (“Qua è più caldo del quinto girone dell’inferno” e se lo dice Jagger…) alle radici del blues con una citazione di Robert Johnson, mi ricordo perché dicevano che gli Stones mettono paura: cantano di Jack lo squartatore, e il diavolo là dietro sorride. Paint it, black e vedo il fantasma di Brian Jones sul palco, lui che inventò quella melodia al sitar, sorridere compiaciuto. Non se ne è mai andato.
E la loro attualità esplode nel grande finale con Gimmie shelter, scritta nel 1968 mentre infuriava la guerra in Vietnam e la rivoluzione nelle strade, e quel povero ragazzo di prima supplicava un rifugio. Oggi scorrono le immagini di Mariupol devastata e la bandiera ucraina, perché sì, il rock’n’roll sta sempre dalla parte giusta.
Alla fine dopo una devastante Statisfaction, mi viene ancora in mente che grazie a Dio questi “ragazzi” sono ancora in giro, in un mondo di beoti soddisfatti delle loro carriere, del conto in banca, del loro spregevole individualismo, c’è ancora qualcuno che implora di trovare “soddisfazione” un senso, una giustizia nella vita, che non sia accontenta e insiste, sempre.
Perché, alla fine di tutto, che altro può fare un povero ragazzo se non cantare in una rock’n’roll band?