Fine del Diciannovesimo secolo, i giorni spensierati (per chi aveva molti soldi) della cosiddetta Bella Epoque, l’era che annunciava il nuovo mondo, quello delle possibilità, dei sogni che si avverano, del trionfo della scienza sulle vecchie e superate religioni, del divertimento, del superamento di ogni logica moralista. Artisti di ogni tipo trovavano mecenati in grado di sostenerli economicamente e il sesso era pratica comunitaria, con scambio di coppie e anche la droga, come l’oppio, era un consumo quotidiano. Niente di più simile al decadentismo delle rock star di quasi una secolo dopo.
Sulla meravigliosa Costa Azzurra, tra il Principato di Monaco e Nizza, centri pulsanti della bella vita dei ricchi, nell’incantevole promontorio a picco sul mare a Villefranche-sur-Mer un ex banchiere sopravvissuto al naufragio del Titanic che aveva accumulato somme ingenti, Eugenio Thomas, si fece costruire una lussuosa villa di sedici stanze fronteggiata da colonne ioniche di marmo. In origine portava il nome di Château Amicitia. Nel 1919 ribattezzata Nellcôte, fu acquistata dalla famiglia Bordes, famosi armatori specializzati nel trasporto di nitrato di sodio tra il Cile e la Francia.
Intorno ad essa nacquero leggende e storie rivelatesi fasulle, ad esempio che fosse quartier generale della Gestapo durante l’occupazione nazista della Francia e che nei suoi semi interrati vi venissero praticate atroci torture nei confronti dei membri della resistenza francese. In realtà la villa venne usata come residenza di alcuni alti ufficiali, ma non fu mai quartier generale della Gestapo, che si trovava nella vicina Nizza, i membri della resistenza ed ebrei venivano incarcerati e torturati all’Hermitage e all’Excelsior. Il sud della Francia infatti non era occupato dai tedeschi, ma dal governo collaborazionista di Vichy. Vi arrivarono solo dopo il settembre 1943 temendo uno sbarco alleato nella zona e se ne andarono nell’agosto 1944, undici mesi dopo ed è da escludere che in quel breve tempo avessero richiesto di fabbricare quelle “decorazioni”. Le svastiche che si trovano nelle prese d’aria e nelle griglie di ventilazione in ghisa in realtà erano state installate durante la Belle Epoque, in quanto la svastica era allora un arredamento molto amato. Ma non è altresì escluso che nella villa i nazisti, amanti della bellavita, vi avessero tenuto baccanali dei più diversi tipi.
Agli inizi degli anni 70, ma anche prima, le rock star inglesi sono colpite da una autentica persecuzione finanziaria dei governi inglesi che sperano di riempire le loro povere casse con quei soldi inaspettati. Già George Harrison anni prima aveva denunciato questo accanimento nel celebre brano Taxman che prendeva di mira il leader laburista Harold Wilson che aveva introdotto una supertassa del 95% sulle entrate totali. Vittime anche loro del prelievo, i Rolling Stones pensano bene addirittura di lasciare la madre patria con un tour di addio e si trasferiscono nella vicina Francia: Jagger e la moglie Bianca a Parigi, Keith Richards opta per l’incantevole Costa Azzurra con gli altri membri del gruppo nei pressi. Ben presto però tutti si trasferiscono nella villa Nellcôte. In realtà gli Stones fuggono dalla morte, dai cadaveri di Brian Jones e di Altamont, dall’overdose quasi letale di Marianne Faithfull per rifugiarsi in una catacomba, un seminterrato, quello di Villa Nellcôte.
L’idea di registrare un nuovo disco viene per caso, dopo il grande successo di Sticky Fingers, ma la villa non dispone di un ambiente adatto. Si opta per i tetri scantinati dalla pessima acustica con uno studio mobile nel parco adiacente.
Come ricorda il bassista Bill Wyman, era impossibile trovarsi tutti insieme negli stessi momenti. In teoria si comincia a lavorare dalle otto di sera ogni sera fino alle luci dell’alba: ““Non tutti si presentavano tutte le sere. Quella per me fu una delle maggiori frustrazioni di tutto quel periodo. Per i nostri due album precedenti avevamo lavorato bene insieme al produttore Jimmy Miller. A Nellcôte le cose erano molto diverse e mi ci è voluto un po’ per capire il perché”. Il perché è presto detto In quel periodo Keith Richards è diventato dipendente quotidianamente dall’eroina. A Nellcôte, nel gabinetto, Keith ha scritto questa formula, 97 a 3, sono i grammi, questi ultimi, della polvere della prima busta che vanno mischiati ai 97 di lattosio della seconda. Nonostante molte foto lo ritraggano in un clima rilassato nei prati con la moglie Anita Pallenberg e il figlio Marlon, il musicista passa quasi tutto il giorno a dormire e smaltire i postumi della droga e spesso non si alza neanche alla sera.
Ben presto nella villa arrivano i peggiori spacciatori di Marsiglia a far corte, e anche ospiti improvvisati come John Lennon, Gram Parsons, Eric Clapton, lo scrittore William Burroughs, tutti eroinomani. L’eroina era ovunque a disposizione di tutti, la casa era aperta a tutti.
La band di base per le sessioni a Nellcôte è composta da Richards, Bobby Keys, Mick Taylor, Charlie Watts, Nicky Hopkins, Jimmy Miller (abile batterista prese il posto dell’assente Watts in Happy e Shine a Light) e Jagger quando era disponibile. A Wyman non piace l’atmosfera della villa e salta molte session. Sebbene Wyman sia accreditato solo su otto brani dell’album pubblicato, disse alla rivista Bass Player che i crediti non sono corretti e che in realtà suonò su più brani. Le altre parti di basso sono state attribuite a Taylor, Richards e al bassista Bill Plummer. Nel suo libro di memorie Stone Alone Wyman ricorda che c’era una divisione tra i membri della band che si abbandonavano liberamente alla droga (Richards, Miller, Keys, Taylor e l’ingegnere Andy Johns) e quelli che si astenevano a vari livelli (Wyman, Watts e Jagger).
Jagger si sarebbe sempre dichiarato deluso da questo disco: ““Exile non è uno dei miei album preferiti, anche se ha un feeling tutto particolare. Nell’insieme è un buon disco ma non sono sicuro che i pezzi siano così validi… Fu un gran calderone in cui gettammo di tutto. Se poi alla gente piace, tanto di guadagnato. Io però non penso che si tratti di un capolavoro.”
Ciò nonostante, è l’album che meglio cattura, probabilmente proprio per le condizioni estreme in cui venne registrato, l’anima rock più verace del gruppo, intrisa di tute le componenti musicali che fecero di un gruppo inglese la più grand band americana di non americani: soul, country, R&B, blues, gospel e ogni altra cosa nel mezzo. Il tutto con un suono sporco, garage nel vero senso della parola, quasi un lamento funebre che emerge da sudicie cantine, dall’eroina iniettata nelle vene, sesso fugace e promiscuo, lunghe notti con bottiglie di vino francese a scambiarsi vecchie canzoni country. Nonostante il prodigio di quella musica, Gram Parsons (a cui andrebbe accreditato il capolavoro Wild Horses nel disco precedente degli Stones) venisse a un certo punto cacciato dalla villa per il suo uso esagerato di droga, la sua influenza sul disco è palpabile, in brani straordinari come Sweet Virginia o Shine a light ad esempio. Gli orari sballati, le mancate partecipazioni spinsero Richards, ritrovatosi da solo in studio con Bobby Keys e Jimmy Miller, ad approntare un piccolo capolavoro come Happy: “Quel brano venne fuori perché per una volta ero in anticipo per una sessione. C’erano Bobby Keys e Jimmy Miller. Non avevamo niente da fare e improvvisamente avevamo preso la chitarra e suonato questo riff. Abbiamo registrato la traccia originale con un sax baritono, una chitarra e Jimmy Miller alla batteria. E il resto è stato costruito su quella traccia. Era solo una jam pomeridiana in cui tutti dicevano: Wow, sì, lavoraci sopra”.
Benché diversi pezzi risalissero alle sessioni Sticky fingers, Exile ha una unità e uno scopo tutto suo e soprattutto per la prima e unica volta nella loro carriera non contiene un hit single, con la possibile eccezione di Tumbling Dice e Happy. “È un insieme di stili musicali; non include musica pop, non c’è quasi nessun brano pop” dice Mick Jagger. “Non ci sono belle melodie in quanto tali. Non c’è una grande ballata, in effetti, non ci sono quasi ballate. C’è Shine A Light, ma è una canzone gospel. Ma c’è tutto il resto: c’è un po’ di country, c’è un po’ di blues, cover semplici, una specie di hard rock. E’ una specie di esibizione di stili”.
Le registrazioni a dirla tutta furono caotiche, tutti erano alla mercé degli orari imprevedibili di Richards, che venivano interrotti quando era l’ora di mettere a dormire il figlio Marlon.”Era molto drogato, quindi era totalmente non strutturato”, dice Watts. “Quando si svegliava andavamo a registrare qualcosa, e se fosse stato sveglio per 15 ore avremmo suonato per 15 ore”.
L’ambiente della villa era così assurdo che una notte qualcuno rubò undici chitarre di Richards, la polizia faceva controlli e minacciava arresti, incluso accuse di aver iniettato eroina a Marlon. Alla fine dell’estate tutti ne ebbero abbastanza e il primo novembre la band arrivò a Los Angeles nel tentativo di dare un suono più commerciale al disco, Jagger reincise quasi tutte le sue parti vocali, ma quel disco viveva ormai di una vita sua, era impossibile cambiarlo. La polizia irruppe poco dopo nella villa, dove rinvenne quantitativi di eroina e cocaina. Processati in contumacia, Richards e la Pallenberg beccarono un anno di prigione con la condizionale e una multa di 5 mila franchi ciascuno.
C’è una stagione all’inferno in queste registrazioni, ci sono i fantasmi di quel periodo storico, come Angela Davis, c’è quello di Robert Johnson in Ventilator blues, c’è un rock’n’roll sguaiato e irriverente, sputato dal fondo dell’intestino come Rocks off e All down the line. C’è il desiderio salvezza in extremis, nei canti gospel di Shine a light e I just want to see his face. E c’è il sopravvissuto dell’anima, Soul survivor, perché i Rolling Stones, alla faccia del patto con il diavolo, sopravvissero e sopravvivono. Era un disco fuorilegge, perché il rock’n’roll nella sua massima accezione è fuori della legge.