A Roma, nel quartiere popolare e periferico del Laurentino 38, c’è l’unica notizia che è riuscita a passare attraverso la selva di informazioni sul coronavirus.

Valerio Armeni, un giovane di 20 anni, ha ucciso, al culmine di una lite in famiglia, la mamma, Pamela Ferracci, di 46 anni. L’ha decapitata a colpi di coltello. A darne notizia ai carabinieri la sorella dei giovane che, terrorizzata, si era rifugiata dai vicini. Il fatto tremendo avviene la notte tra sabato e domenica. Il giovane, appare evidente, sarebbe affetto da patologie psichiatriche ma, purtroppo, tutto ciò non sarebbe estraneo alla tremenda pressione cui tutti siamo sottoposti a causa del Coronavirus.
La reclusione forzata cui tutti siamo costretti – veri e propri “arresti domiciliari” secondo alcuni – acuisce il dramma che vivono già le persone fragili assieme alle famiglie che le ospitano. In questo caso è la tragedia delle donne vittime di violenza domestica; in altri casi, vittime della medesima aggressività, sono i bambini oppure gli anziani e i disabili.



A volte queste situazioni già di per sé esplosive degenerano e la custodia coatta attuale che impedisce vie d’uscita e costringe alla convivenza, può essere un elemento che costituisce l’inizio di una spirale di eventi drammatica e senza ritorno.

La sorella del ventenne, che prima ha provato a fermare il ragazzo senza riuscirci, si è salvata rifugiandosi dai vicini che hanno chiamato i carabinieri. Per fortuna in questo caso ha funzionato la rete di aiuto e così almeno la ragazza ha potuto salvarsi. Non di rado altri drammi si consumano nel silenzio, nell’indifferenza degli altri condòmini e questo silenzio può divenire devastante quando si è costretti tra quattro pareti. Apprezziamo così ancor di più la presenza del vicino, del dirimpettaio, del prete, del volontario che in caso di bisogno ci ascoltano e intervengono.



Proprio nel mezzo dell’infuriare del coronavirus abbiamo la possibilità di dimostrare come ogni individuo possa promuovere la comunità circostante e come la comunità, a propria volta, possa sostenere le situazioni di fragilità e di disagio. Rimanere in casa in tempi di coronavirus, è necessario. Anzi, è doveroso. Più ancora, è obbligatorio. Ma è estramamente impegnativo. I cappellani delle carceri sanno perfettamente quanto enormemente costosa sia la semplice pena della riduzione della libertà. Stare chiusi in pochi metri quadrati con delle persone facendo i conti con i loro modi di vivere diversissimi dai nostri è per la creatura umana, non nascondiamocelo, una tortura. Non è solo una fatica: ho usato il termine tortura e non me lo rimangio. Tanto più pesante è questa situazione per le persone con disabilità fisiche o psichiche, e per chi le accompagna. Le famiglie che hanno in casa un disabile, soprattutto con problemi psichiatrici, non vanno lasciate sole. L’episodio del Laurentino 38 ce l’ha drammaticamente ricordato. La solitudine è un virus assai più pericoloso di qualsiasi agente patogeno. Non conosce stagioni. Possiamo eliminarlo solo con il vaccino della sollecitudine, con l’abitudine a farci carico degli altri.



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