Un bambino, una città deserta, un pallone e una maglia di calcio: nei giorni di isolamento da Coronavirus basta questa immagine per farci desiderare che questa pandemia scompaia. La maglia è quella di Nicolò Zaniolo, i colori giallorossi della Roma e il numero 22; la città è Roma, il ragazzino tenta un colpo di tacco per strada – letteralmente in mezzo, sulle rotaie del tram – approfittando del fatto che in giro non ci sia nessuno. Una macchina e qualche motorino parcheggiati, per il resto nulla di nulla: forse, Roma così non l’abbiamo mai vista e questo vale per tutte le altre città d’Italia, che stanno vivendo la stessa situazione. E’ una fotografia simbolica: chissà, magari tra qualche anno potrebbe assumere la stessa valenza del celeberrimo bacio tra il marinaio e l’infermiera a Times Square (anche se lei avrebbe confessato 60 anni più tardi che fu quasi “costretta”, ma è un’altra storia).

Senza voler fare paragoni, lo scatto del bambino che palleggia con la maglia di Zaniolo, pubblicato dal Corriere della Sera è davvero simbolico del periodo che stiamo vivendo: c’è sostanzialmente tutto. Una nazione che ha paura (sia essa giustificata o meno) lasciando le strade deserte, la sensazione apocalittica che si respira, un ragazzino che a prescindere dall’ambiente intorno a lui fa quello che gli piace fare: giocare a calcio, magari sognando di diventare un giorno un calciatore professionista della Roma (che poi era lo stesso sogno che aveva un certo Francesco Totti, e chissà quanti altri).

Quante volte lo abbiamo detto? Quando eravamo ragazzini, ci bastava un pallone. Magari qualche felpa per simulare i pali delle porte, e si era felici così. Quale fosse il campo, importava poco o nulla: al sottoscritto, dopo qualunque oggetto della casa preso a calci – potrei elencarne svariati, nei recessi della mente è rimasto soprattutto un cagnolino di peluche – era stata regalata una palla (azzurra) e con quella si apriva tutto un mondo, che poi in realtà era un minuscolo cortile in cemento con vista strada (trafficata) oppure il corridoio stretto e nemmeno troppo lungo che portava alle camere da letto. Chi ama il calcio, chi ci abbia giocato, chi lo abbia fatto solo tra amici e senza mai prendersi sul serio (o magari sì, ma non riuscendoci troppo) sa bene che il punto non è mai stato avere il campo bello, gli scarpini in tinta o, per stare alla maglia di Zaniolo, la divisa del calciatore preferito. Se poi c’era tanto meglio, ma mica ci si fermava per così poco.

Sognare la finale di Coppa dei Campioni era un esercizio della mente per il quale bastava un oggetto sferico e qualcuno da dribblare. A volte erano le sedie. E’ bello che attraverso questo scatto si sappia che è ancora così, è ancora più significativo che l’immagine del bambino con la maglia di Zaniolo racconti anche la quarantena da Coronavirus. Perché, girando e rigirando la storia, qual è il punto più importante? Restare in casa, avere paura, mettersi la mascherina: giusto, doveroso e necessario, ma il cuore ci dice chi siamo davvero, da dove veniamo e cosa desideriamo, ed è quello che non dobbiamo perdere mai. Sia anche palleggiando sulle rotaie del tram, sia anche rinchiusi (letteralmente) nei metri quadri della nostra casa.