Claudio Marini, finto regista accusato di violenza sessuale aggravata nei confronti di diverse ragazze, è stato condannato a 11 anni e nove mesi di carcere. I giudici della quinta sezione penale del tribunale di Roma hanno inflitto una pena superiore a quella che era stata chiesta dalla procura, che aveva sollecitato una condanna a 9 anni. Secondo l’accusa, il sedicente regista con la scusa di effettuare provini aveva adescato le vittime, che volevano provare ad entrare nel mondo del cinema. Le violenze sarebbero state compiute tra il 2019 e il 2020. Le vittime delle violenze nella Capitale sono otto. Stando a quanto riportato dal Tempo, il modus operandi era sempre lo stesso.
Come evidenziato nel capo di imputazione relativo ad otto diversi episodi, il finto regista fingeva di essere stato incaricato da una società, «soggetto giuridico inesistente», di «effettuare un casting di film». L’uomo si attribuiva un falso nome e una falsa qualità professionale, traendo in inganno le vittime «e costringendole con violenza a subire atti sessuali». L’imputato venne arrestato nell’estate del 2020 ed è tornato libero durante il processo per scadenza termini.
ROMA, PROCESSO NATO DALLE DENUNCE DI 12 RAGAZZE
Il finto regista incontrava le aspiranti attrici prima in un luogo pubblico, poi le invitava a casa per provare una scena. Stando a quanto ricostruito dal Tempo, il processo nasce dalle denunce di 12 ragazze. Il tribunale, oltre a condannarlo, lo ha dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici. Nel procedimento si è costituita parte civile l’associazione “Differenza donna“, a cui nome sono intervenute l’avvocato Teresa Manente e la collega Marta Cigna. «Questa sentenza rappresenta una nuova era, l’era del “me too” italiano, un movimento che parte dalla forza delle donne del mondo dello spettacolo dalla loro consapevolezza dei loro diritti negati, delle molestie e violenze sessuali che restano ancora invisibili».
Manente e Cigna evidenziano che questo movimento «ha preso forma e voce anche nel nostro Paese grazie alla determinazione di tante donne attrici e aspiranti attrici come le 12 parti offese di questo processo seguite e sostenute dall’associazione», che appunto si è costituita parte civile nel processo con l’associazione Amleta, con cui «lotta per svelare la gravità e la diffusione di molestie e violenza sessuale in questo contesto dove permangono stereotipi e pregiudizi sessisti». Infine, si sono rivolte alle giovani donne attrici o aspiranti tali: «È reato chi viola la nostra libertà di autodeterminazione e sessuale e chi sfrutta il proprio potere per indurci a subire e a tacere».