Mi sembra perfino esagerato scomodare Shakespeare: “Molto rumore per nulla”. Il rumore è il chiasso mediatico che hanno fatto ieri alcuni quotidiani online per la notizia di una scuola di Roma che, nel sito istituzionale, lì dove presenta il contesto socio-economico in cui opera – cosa che fanno praticamente tutte le scuole della Repubblica, ci torniamo fra un attimo – segnala che “La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana”.
Apriti cielo! “La scuola divide gli studenti”, titola inquisitorio Il Fatto Quotidiano; “Scuola pubblica si presenta così: ‘In una sede i figli dell’alta borghesia, nell’altra i ceti bassi’”, gli fa eco Repubblica (ed è meravigliosa la scelta dell’espressione “scuola pubblica”: a suggerire che si sa che le scuole private lo fanno, ma quelle non sono scuole serie…).
Scandalo politicamente correttissimo della ministra: “Descrivere e pubblicare la propria popolazione scolastica per censo non ha senso, mi auguro che l’Istituto romano possa dare motivate ragioni di questa scelta. Che comunque non condivido”. Rinforzo del sottosegretario: “Sono davvero sconcertato che nel 2020 una scuola pubblica possa presentarsi sul proprio sito internet distinguendo i propri plessi in base al rango socio-economico dei propri alunni andando contro ogni valore espresso dalla nostra Costituzione”.
O diamine, e adesso che cosa facciamo? Sciogliamo l’Istat, perché si permette di dire che ci sono italiani più ricchi e italiani più poveri? Lo denunciamo, perché si azzarda perfino a indicare quali zone del Paese sono più benestanti e quali più indigenti? E poi come facciamo a dare il reddito di cittadinanza? Non è discriminatorio chiedere a qualcuno di dimostrare la sua situazione di bisogno?
Torniamo seri. Il povero istituto, tirato per le orecchie, si è precipitato a dare le sue “motivate ragioni”. Che sono semplicissime: “I dati riportati nella presentazione della scuola, composta da 4 distinti plessi, collocati in diversi contesti socio-culturali, sono da leggere come mera descrizione socio-economica del territorio, secondo le indicazioni del Miur”. Infatti, quando le scuole nel 2016 hanno fatto per la prima volta il famigerato Ptof (Piano triennale dell’offerta formativa), si sono riferite praticamente tutte al format fornito dal Miur sul suo sito. E che cosa si legge in questo format?
Sezione 1: La scuola e il suo contesto
– Analisi del contesto e dei bisogni del territorio
– Caratteristiche principali della scuola
Chiunque abbia letto senza prevenzioni il testo incriminato non può che concordare: era né più né meno la descrizione del contesto in cui la scuola opera, come il Miur chiedeva e tutte le scuole hanno fatto. Tanto che Il Messaggero è andato subito a “pizzicare” altre scuole prestigiose, dal Visconti di Roma (“le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alto borghese” e “tutti gli studenti, tranne un paio, sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile”) all’Andrea Doria di Genova (i “poveri e i disagiati […] costituiscono un problema didattico”), che propongono presentazioni non proprio inappuntabili.
Certo, gli estensori del testo sono stati ingenui, non hanno pensato che si poteva prestare a equivoci: non è notizia di oggi che ci sono genitori che cercano le scuole in base al contesto sociale, e che per qualcuno una presentazione del genere poteva essere presa come un’indicazione per mandare il figlio qui piuttosto che là. Ma da qui ad accusare la scuola di operare discriminazioni, suggerendo l’idea che la divisone degli alunni fra i plessi sulla base del ceto sociale sia intenzionale, ce ne passa…
Ma questo è il mondo in cui ci è dato di vivere: la scuola italiana cadde a pezzi, in senso materiale e più ancora figurato – i nostri ragazzi escono sempre meno preparati, gli abbandoni sono sempre più numerosi, mentre le aziende invocano invano decine di migliaia di tecnici che la scuola non prepara più –, e i nostri politici, e i giornalisti che fanno loro da cassa di risonanza, anziché affrontare i problemi reali – primi fra tutti, l’assenza di autonomia vera e di un sistema di valutazione e di carriera degli insegnanti – si fanno belli mettendo alla berlina qualche ingenuo che non ha pensato fino in fondo a quel che scriveva. E poi ci stupiamo che i nostri ragazzi, quelli che possono permetterselo, vadano all’estero. Hanno in mente questa realtà i nostri politici quando inneggiano all’“inclusione”?