Laurens Jolles è il Delegato dell’UNHCR per il sud Europa. Si occupa, per conto dell’agenzia delle Nazioni Unite, delle questioni concernenti richiedenti asilo e rifugiati in Albania, Cipro, Grecia, Malta, Portogallo e San Marino, oltre che in Italia e nella Città del Vaticano. L’abbiamo incontrato nel suo ufficio nella sede dell’agenzia, nascosta in una piccola stradina del quartiere Parioli di Roma, nella quale ci ha concesso in esclusiva una lunga intervista.




Si parla molto in questo periodo di fuga dei cristiani dal Medio Oriente.
Non è una cosa nuova. La fuga di cristiani dal Medio Oriente è in corso da molto tempo, e le comunità cristiane sono sensibilmente diminuite. Non solo in Medio Oriente, ma anche in Iran, per esempio, e in Turchia. Qui molti dei villaggi cristiani si sono spopolati. Tuttavia i cristiani non sono gli unici ad avere problemi legati all’appartenenza religiosa. In Siria, ad esempio, le comunità cristiane sono presenti e rispettate. Il numero di persone che chiede asilo a causa delle persecuzioni di natura religiosa è fortunatamente limitato. I motivi che spingono le persone alla fuga sono diversi, includono anche le tensioni dei Paesi da cui provengono e le difficili situazioni economiche.
 



Qual è la situazione mediterranea invece? C’è ancora un flusso sostenuto dall’Africa del nord, in particolar modo dalla Libia?
In passato c’è stato un flusso significativo dall’Africa. Soprattutto attraverso la Libia e con meta l’Italia, in particolar modo per questioni di vicinanza geografica. Coloro che arrivavano attraverso la Libia provenivano per lo più dai Paesi del corno d’Africa, ma anche da altre zone, come la Somalia, l’Eritrea, la Nigeria e la Costa d’Avorio. Di quelle che arrivavano in Italia, il 70% faceva domanda d’asilo, e il 50% otteneva una forma di protezione. L’Italia dunque riconosceva i problemi che avevano queste persone e gli concedeva protezione internazionale. Due anni fa il ministro Maroni diede il via a quella che è stata chiamata la “politica dei respingimenti”. Che voleva dire bloccare le imbarcazioni in acque internazionali e riportarle in Libia. Così è stato impedito l’arrivo di molti di coloro che avrebbero ottenuto protezione nella penisola.



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Qual è dunque la situazione dei rifugiati in Italia? Come vengono accolti? SI potrebbe fare di più?
In questo Paese c’è una procedura d’asilo che funziona bene, con 10 commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato e questa è una cosa molto importante. Tutte le richieste che vengono poste sono vagliate, poi qualcuna viene accolta, altre no. I problemi vengono dopo. Una delle questioni principali sul tappeto riguarda l’integrazione. Qualcosa viene fatto a questo proposito, ci sono alcune strutture per l’accoglienza ma non abbastanza. Alcuni rifugiati riescono ad entrarvi, altri no, e hanno difficoltà a inserirsi. Si possono rivolgere ad Ong, ad amici, alla famiglia, ma non tutti vi riescono. Bisognerebbe estendere e incrementare le strutture d’accoglienza per tentare di agevolare l’integrazione.
 

Che rapporti ci sono con il governo? Avete trovato un punto di intesa sulla politica dei respingimenti?
Con le autorità italiane cooperiamo e lavoriamo insieme sulle varie questioni. La politica dei respingimenti non ci trova d’accordo, come è noto, e non è mai stata formalmente ritirata. Ma mentre prima le autorità italiane intercettavano i barconi in mare, adesso per varie ragioni questo non avviene più. Gli arrivi in Italia si mantengono comunque bassi, sia perché i respingimenti hanno avuto un effetto di deterrenza, sia perché i libici controllano meglio il loro territorio.
 

In particolare qual è l’impegno dell’amministrazione a Roma? Ci sono strutture attive e impegnate su questo tema?
Roma è certamente la città che ospita il più alto numero di rifugiati e richiedenti asilo. Le carenze presenti sono quelle tipiche dei grandi centri urbani, dove spesso i rifugiati vivono in condizioni di grave privazione, senza fissa dimora, costretti a trovare un riparo in edifici occupati abusivamente. Le strutture di accoglienza non sono quindi sufficienti sebbene il Comune di Roma sia impegnato nel cercare soluzioni sostenibili. Ci sono Ong molto attive così come esiste una rete di associazioni, volontari, medici, avvocati, magistrati che a vario titolo si spendono per la causa dei rifugiati il cui sostegno è davvero significativo.

 
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Una realtà presente nella capitale è quella della Santa Sede. Che rapporti ci sono con il Vaticano?
Direi che i rapporti con il Vaticano sono molto buoni. Per quanto riguarda la situazione dei rifugiati in Italia abbiamo una visione condivisa. Spesso poi le Ong cattoliche sono in prima linea nel sostenere coloro che necessitano di aiuto e assistenza. Penso per esempio alla Caritas, a Sant’Egidio o al centro Astalli, con i quali collaboriamo a tutti i livelli. In particolare sull’impegno nelle pratiche d’asilo, nell’accoglienza ma anche su questioni più generali, come la lotta al razzismo e alla xenofobia.

Nelle prossime settimane si porrà un caso Sudan in seguito al referendum che mira a dividere il sud dal nord del Paese?
È difficile prevedere cosa succederà anche se ci auguriamo che non ci siano problemi collegati all’esito del referendum . In ogni caso bisogna essere pronti a tutti gli scenari possibili. Ma un esodo in Sudan in effetti già c’è, come ho potuto vedere negli anni che ho trascorso in Darfur. La situazione degli sfollati è grave. Se le cose dovessero andare male, a risentirne di più sarebbero comunque i paesi confinanti, non certo l’Europa.

La situazione dunque potrebbe essere esplosiva?
Sì.

 

(Pietro Salvatori)

 

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