Una mostra curata dalla Fondazione Gramsci e dal Centro Studi di Politica Economica racconta a Roma, ospitata dalla Casa dell’Architettura, settanta anni di storia del Partito Comunista Italiano. L’intento, si legge nel sito ufficiale è quello di «dare conto della straordinaria e articolata messe di documenti del Pci», ma di «utilizzare, al tempo stesso, anche documenti che fossero sul Pci», quali i cinegiornali della Settimana Incom o i documenti dei Comitati Civici. L’intento dei curatori era quello di offrire «più piani di lettura», dei documenti proposti, tali da permettere di offrire «il senso di questa storia nel contesto della storia d’Italia, cercando di non omettere nulla anche sugli aspetti più drammatici e discussi della vicenda del Partito comunista italiano».



Un obiettivo che sulla stampa quotidiana sembra essere lontano dall’essere raggiunto. Il dibattito giornalistico si è sviluppato nel solco della polemica legata alla contingenza e alla convenienza politica del momento. Un’«operazione nostalgia» per alcuni, uno sprone a «guardar quello che si era per altri. Perdendo forse di vista i fatti.



«Oggi non esistono eventi culturali non mediatici», riflette il professor Paolo Pombeni, editorialista del Messaggero e docente di Storia dei sistemi politici all’università di Bologna.

Ma si rischia di buttare tutto in un calderone, smarrendo l’oggetto della riflessione.

Innanzi tutto mi viene da pensare che per giudicare un evento culturale occorre vederlo, farci i conti. Oggi c’è un dibattito pretestuoso. Si sa che c’è una cosa, e senza approfondire si discute della legittimità di questa a partire da propri canoni e idee. I contenuti di quel che si sta parlando non vengono affrontati, spesso perché non li si conosce.



Vorrebbe dire che…

… che tanti di quelli che hanno parlato di questo evento non sono nemmeno andati a vedere la mostra.

È logico che poi diventi motivo di scontro. La mia idea precostituita si scontra con la tua.

Si fa sempre più fatica a guardare l’oggetto, che è sicuramente motivo di possibile incontro, dialogo e confronto, piuttosto che di scontro. Occorre che la discussione torni a incentrarsi sul piano dei contenuti. C’è un fatto storico, c’è qualcuno che lo racconta, in un modo che può essere più o meno accurato e storicamente corretto. Ma parliamo di questo. Altrimenti diventa tutto astratto.

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Ma è un problema del particolare momento politico e culturale in cui ci troviamo?

 

Diciamo piuttosto che c’è stata in questi ultimi anni un’evoluzione in peggio di un sistema in cui i toni si sono continuati progressivamente ad alzare. Oggi su tutto si scatena una lotta, si inizia quasi sempre a discutere per una voglia di fare polemica.

 

Ma le persone non rischiano di perdere di vista il cuore delle cose?

 

Mi chiedo se in fondo non sia quello che in tanti cercano. Se penso a chi comunica, credo che sia convinto che per farsi ascoltare occorra per forza alzare i toni, urlare, fare scalpore. E mi riferisco al mondo della politica, dell’informazione, ma anche alle trasmissioni televisive. Gli ospiti sono sempre quelli che urlano di più, che attirano l’attenzione con il modo di fare. Per esempio, quelli sui comunisti come spauracchio, sono discorsi che dovrebbero finire nell’armadio della memoria. Anche mediaticamente hanno peso ormai su un’esigua minoranza.

 

Da dove occorrerebbe ripartire?

 

Bisogna tornare a mettere i fatti in fila, a guardarli, approfondirli e giudicarli. I grandi temi dei giovani, del mondo del lavoro, delle vuote manifestazioni sull’università, dove c’era gente che non aveva idea di quello di cui si stava discutendo, la grave questione di una classe dirigente che non c’è più. Questi sono i veri problemi del Paese. E occorre tornare a guardarli in concreto, se no si finisce per parlarne come si parla della mostra sul Pci.

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