Il 27 gennaio 1945 le recinzioni del gigantesco campo di concentramento di Auschwitz si aprivano all’arrivo delle prime truppe alleate, senza resistenza. I tedeschi se n’erano andati qualche ora prima, dopo aver distrutto tutte le prove che potevano dei loro crimini e portandosi dietro quanti più deportati riuscivano, per avviarli alle spaventose “marce della morte”, ultimo atto dello sterminio: cortei di persone debolissime, malate, denutrite, seminude, dirette verso il niente nel gelo del gennaio polacco. Gli alleati trovarono fosse di cadaveri, quel che restava delle camere a gas e dei i forni crematori smantellati in fretta, una folla di detenuti così deboli e percossi nella loro stessa identità da non poter neanche lontanamente accogliere i carri armati liberatori col giubilo che abbiamo visto alla fine del film di Benigni. La strada per il ritorno a casa del resto era ancora lunga e dolorosa, come ha raccontato Primo Levi. Alcuni, un anno dopo, arrivati in vista di Israele, furono di nuovo internati e perfino riportati in Germania dall’esercito britannico.
Quel giorno in cui, se non la fine dei tormenti, era arrivata per i deportati di Auschwitz la sottrazione alla bestiale violenza nazista, è stato scelto dall’Europa e anche dal nostro Paese per celebrare la memoria del genocidio. E’ una scelta importante, non certo per “dare soddisfazione” agli ebrei, che in buona parte d’Europa sono stati sostanzialmente eliminati (in questo il progetto nazista è stato in buona parte realizzato) e che comunque non possono trovare in cerimonie pubbliche sollievo al loro lutto; ma per l’anima stessa dell’Europa, che con questa giornata deve non celebrare ma interrogarsi sulla propria identità, sulla spinta genocida che l’ha dominata, sulle ragioni che l’hanno portata alla distruzione gratuita di un popolo (e anche, accanto ad esso, di quelli che erano considerati “disadattati sociali”, omosessuali, zingari, portatori di handicap fisico o mentale).
Concentrarsi sull’atto finale del genocidio, sul campo di Auschwitz, è riduttivo. Oltre ad Auschwitz ci furono decine di campi di sterminio (uno anche in Italia, alla Risiera di Trieste), tutto l’apparato logistico per alimentarli (i campi di transito, da noi i più terribili a Fossoli e Bolzano; le ferrovie; le polizie che rastrellavano le vittime – più o meno segrete e irregolari, ma in molti paesi come la Francia e l’Olanda anche i poliziotti regolari). Ci furono centinaia di migliaia, forse milioni di vittime anche fuori dai campi, soprattutto a Est: abbattuti per strada, bruciati vivi nelle loro case, ammazzati in tutti i modi. Ci fu la collaborazione di popoli interi, che denunciarono, arrestarono, in certi casi, come in Lituania, in Polonia, in Ucraina, in Romania, furono parte attiva dello sterminio. Ci fu il silenzio dei governi, degli intellettuali, di buona parte degli uomini di Chiesa. Un silenzio su cui vale la pena di interrogarsi: senza concentrarsi necessariamente su questo o quel personaggio.
Era possibile fare altrimenti. A Yad Vashem, il museo della Shoà che sorge a Gerusalemme, c’è un bosco con 23 mila alberi, ognuno dedicato a un "giusto delle nazioni", che in maniera disinteressata e spesso molto rischiosa salvò una vittima, una famiglia, decine o centinaia di persone. Eroi come Perlasca o Schindler, il vescovo metropolita di Sofia in Bulgaria che riuscì a indurre il governo alleato dei nazisti a bloccare i rastrellamenti, o il re di Danimarca, che minacciò di mettersi lui stesso il segno giallo dei deportati. Era possibile fermare la macchina dello sterminio, prestare assistenza e conforto alle vittime. Qualche volta, molte volte fu fatto – e la gratitudine degli ebrei per chi salvò i loro parenti in difficoltà non ha limiti. Molte più volte, la grande maggioranza delle volte non fu fatto. L’Europa deve usare la Giornata della memoria per chiedersene la ragione. Ce ne sono diverse, la fragilità umana, la vigliaccheria, l’adesione acritica all’autorità, la paura dei nemici in guerra. Ma la ragione principale è l’antisemitismo, quella pratica secolare che ha disumanizzato gli ebrei, li ha trasformati agli occhi della maggior parte degli europei in non persone, insetti da eliminare.
Ma l’Europa deve anche interrogarsi sul rischio che questa terribile serie di eventi possa ripetersi, come del resto già il genocidio nazista era la ripetizione industriale di una serie di stragi che si erano ripetute per secoli, in Germania come in Spagna, in Marocco come in Polonia, in Tunisia come in Russia. L’origine di questi crimini era sempre la demonizzazione del popolo ebraico, che continua ancora oggi, per bocca degli islamisti, del governo iraniano, di Al Queida, di chi progetta la soluzione della questione palestinese "ricacciando a mare gli ebrei", e di chi li fiancheggia.
Se la Giornata della memoria non sarà un’innocua collaborazione delle vittime, magari di tutte le vittime di tutte le stragi della storia umana, ma servirà a interrogarsi sulle responsabilità di questo genocidio che ha devastato il cuore del nostro continente due generazioni fa, e sul modo di rompere una catena di crimini analoghi che dura da mille anni, allora la Giornata non sarà un appuntamento formale e magari un po’ retorico, ma continuerà ad avere un senso essenziale per tutti noi.