Alcuni giorni fa, durante una visita presso una delle aziende associate alla Cdo, mi sono imbattuto in una situazione piuttosto singolare. Giunta l’ora di pranzo, dopo una chiacchierata , Augusto, il titolare,  imprenditore del settore della ceramica, mi ha chiesto se avessi preferito andare a mangiare in un ristorante della zona, piuttosto che seguire una loro tradizione: fermarmi a pranzo con lui ed i suoi dipendenti nella sala riunioni aziendale. Senza esitare ho optato per la seconda soluzione; meno ortodossa ma sicuramente più affascinante. Mi è stato spiegato che da anni i nostri amici pranzano assieme, godendo della prelibata cucina del direttore finanziario, Dante, che all’avvicinarsi della pausa pranzo sostituisce ai bilanci ed al budget i fornelli del cucinino e si mette a servizio degli altri in veste di chef. Prima dell’arrivo del piatto – cacio e pepe e ventresca – i sei impiegati/commensali si sono dati un gran da fare nel sistemare la sala riunioni e trasformarla in un’amabile sala da pranzo.



Premetto che non mi capita spesso un’accoglienza del genere durante visite di lavoro, ma al di là degli aspetti culinari il fatto che mi ha offerto uno spunto di riflessione è stato veder trattare il luogo di lavoro come la propria casa, ed i colleghi tra di loro relazionarsi con una evidente familiarità. Mentre gustavo il pasto non ho potuto non chiedere ad Augusto ed ai suoi ragazzi, come percepissero le notizie che di questi tempi in tv – sull’ondata del caso Fiat – ci parlano di lotte sindacali, scontri tra datori di lavoro e dipendenti, ingiustizie sociali e via discorrendo. La risposta è stata tanto semplice quanto disarmante: «Beh, non è ciò che viviamo noi, riguarderà qualcun altro. La nostra esperienza è diversa».



Probabilmente riguarderà qualcun altro, ma in quante piccole e medie imprese italiane possiamo essere messi di fronte a spettacoli di questo genere? Magari non al punto di perpetrare tradizioni di pranzi assieme come quello al quale sono stato invitato, ma in quante aziende italiane, in quante aziende romane e laziali – per citare il nostro caso – ci troviamo di fronte ad imprenditori che vivono la realtà aziendale percependo l’assoluta unità con i propri dipendenti? Non si creda che si tratti di casi così isolati, magari semplice appannaggio delle aziende “familiari”, da cui magari più facilmente ci si potrebbero aspettare atteggiamenti collaborativi tra soggetti legati da vincolo di parentela.



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Grazie al lavoro che quotidianamente svolgo a Roma e sul territorio laziale, che consiste nell’incontrare imprenditori di micro, piccole e medie aziende, posso assicurare che molto spesso mi capita di imbattermi in situazioni quanto mai distanti da ciò che i giornali e la tv ci propinano serratamente come l’unica realtà possibile ed immaginabile. Chi ha la fortuna di lavorare nell’ambito delle Pmi sa benissimo che sono numerosi i casi in cui l’imprenditore ha chiaro che il bene dell’azienda, del suo lavoro ed il bene dei lavoratori sono strettamente legati ed orientati in un’unica direzione. Ho visto imprenditori aiutare i loro dipendenti a costituire società in proprio, alle quali hanno poi ceduto rami di attività al fine di stimolare la crescita delle persone che lavoravano in azienda, poiché considerate come “membri della famiglia”.

 

Oppure titolari di Pmi che hanno ridotto il proprio compenso, specie in questo periodo di crisi, per evitare di dover licenziare qualcuno dei dipendenti. Sono spesso proprio i piccoli imprenditori, quelli da cui la mentalità comune non si aspetterebbe nulla perché ritenuti piccoli e dunque un po’ “sfigati”, quelli che svolgono un’attività sociale importantissima sul territorio, ossia creare lavoro alle persone in un’ottica sociale e non solo di business. È il caso dell’amico Remo, imprenditore di Anagni, che qualche anno fa ha assunto un ragazzo del suo paese che aveva delle difficoltà e che nessuno voleva prendere a lavorare. Remo ha avuto chiaro che se non avesse fatto lui una scommessa, questa persona non avrebbe avuto mai nemmeno una chance di farsi valere. Beh, dopo anni che il ragazzo lavora lì, questo non solo ha risolto gran parte dei suoi problemi, ma è stato anche premiato come uno dei migliori dipendenti dell’azienda.
Con questi esempi non si vuole di certo far di tutta l’erba un fascio, poiché purtroppo, spesso si è anche testimoni di fatti di ingiustizia lavorativa. Ma è importante comprendere che non si tratta di fenomeni “propri” del mondo imprenditoriale, come gran parte della stampa e una certa mentalità vogliono farci credere. Riguardano piuttosto casi di persone disoneste che è bene che si assumano le proprie responsabilità di fronte alla giustizia.

 

Come tutti i pregiudizi, sicuramente quello negativo che spesso si crea nei confronti degli imprenditori, non giova alla società, che è già provata dall’instabilità economica e politica. Occorre superare l’idea preconcetta dell’imprenditore “padrone” che guarda solo ai propri interessi a discapito dei lavoratori – facendo quasi finta, tra l’altro, che il titolare di Pmi non sia spesso anche il lavoratore più appassionato e più attivo dell’azienda. Se guardiamo alle piccole e medie imprese – che rappresentano più del 90% del tessuto economico italiano –  ci accorgiamo che il divario tra datore di lavoro ed operaio, così enfatizzato in tv, in tantissimi casi non esiste. Occorre invece guardare con stima e fiducia a chi rischia il proprio denaro e sacrifica molto del proprio tempo perché le aziende funzionino, perché possano essere assunte le persone che hanno voglia e bisogno di lavorare, e soprattutto perché le imprese rappresentino luoghi di formazione e crescita per i giovani che hanno una grande necessità di imparare e di essere messi di fronte ad esempi positivi della realtà.

 

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Si nota, al contrario, con dispiacere che stanno proliferando, sulla tv e sui giornali, rubriche di denuncia su tutto ciò che non funziona. È il caso evidente di “Striscia la notizia”, o della rubrica “dillo al Messaggero”, dove la testata capitolina invita a segnalare tutto ciò che non funziona nella nostra città: dalla buca a via del Tritone al cassonetto troppo pieno alla Magliana. Queste modalità di denuncia, per quanto spesso efficaci e valide, dovrebbero essere accompagnate dal racconto dei tanti casi virtuosi, per poter fornire un immagine esaustiva della realtà, sia locale che nazionale, e non distorta da una visione "strabica". Nessuno oggi ci parla di Augusto,di Remo e dei loro dipendenti. Nessuno parla del lavoro immane che molte opere sociali svolgono quotidianamente nella città di Roma: c’è chi procura pasti e cibo per i bisognosi,  chi accoglie mamme con bambini, chi padri divorziati che non riescono ad arrivare a fine mese.

 

L’uomo è una creatura naturalmente positiva, in quanto viva, e pertanto per muoversi nella realtà ha bisogno di esempi positivi, che non mancano certamente di fronte ai nostri occhi, ma che vengono lasciati in disparte per favorire la logica miope e distruttiva dell’accusa, del sospetto, del pregiudizio, del losco e del marcio…anche quando di losco e di marcio non c’è proprio nulla.
Dall’interno del campo di concentramento il famoso scrittore Guareschi scriveva “non muoio neanche se mi ammazzano”. Abbiamo bisogno di poter guardare a tutti i piccoli e silenziosi “Guareschi” che ci circondano. E, grazie a Dio, né è piena Roma e ne è piena l’Italia. Cominciamo a raccontarci di loro.

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