Una vicenda infinita, quella della Videocon, la fabbrica di Anagni che da anni rischia di fallire, facendo così perdere il posto di lavoro a oltre 1.300 lavoratori. In questi giorni, sessanta di questi sono stati condannati dal tribunale di Frosinone per le due manifestazioni dell’ottobre 2009 durante le quali gli operai scesero in strada nei dintorni della fabbrica, occupando l’autostrada A1 tra Roma e Napoli per protestare contro la chiusura dello stabilimento. A loro si aggiungono gli altri 120 che hanno avuto lo stesso provvedimento in precedenza, cioè una condanna a quindici giorni di reclusione, tramutata in una multa di 4.000 euro. Per parlare della Videocon è necessario ripercorrere la sua intera e tortuosa storia per capire come sia possibile che oggi oltre 1.300 dipendenti si trovino in cassa integrazione e senza alcuna certezza per il futuro: non molti anni fa questa azienda era leader nella produzione mondiale di cinescopi e si chiamava Videocolor, sotto il controllo della Thomson, la celebre multinazionale francese produttrice di televisioni, che decise di delocalizzare la propria produzione in altri paesi. Così si decise di vendere la proprietà degli stabilimenti di Anagni a una multinazionale Indiana, la Videocon, di appartenenza del gruppo indiano della famiglia Venugopal Dooth. La Videocon, in accordo con il governo e i sindacati, si impegnò a garantire l’occupazione di 1.500 dei 2.550 dipendenti complessivi dell’azienda per 3 anni. A detta dei lavoratori, in questi tre anni non è stato prodotto neanche un televisore, ma ci si limitava ad assemblare materiale importato dall’estero per poter usare il marchio “Made in UE”, nonostante la presenza nei locali di lavoro di macchinari tecnologicamente all’avanguardia per produrre televisori al plasma. Adesso i tre anni sono trascorsi e il gruppo indiano ha deciso di cambiare il piano industriale, mettendo così a rischio il posto di lavoro di oltre 1.300 dipendenti. Per capire meglio la situazione e conoscere gli sviluppi più recenti, IlSussidiario.net ha contattato Angelo Colombini, Segretario nazionale della Femca Cisl, che da anni si sta occupando della vicenda: «Nel momento in cui Thomson è uscita dai giochi, ha lasciato in dote anche una buona fetta finanziaria per rilanciare a tutti gli effetti la società, che quindi aveva la possibilità di iniziare la nuova esperienza di produzione dei televisori al plasma dopo quella dei tubi catodici. La società passa al gruppo indiano, che dopo tre anni decide di uscire, e all’inizio intrattiene tutta una serie di trattative con un imprenditore di Avellino il quale, vicini ormai all’accordo, sceglie di rompere i rapporti. A questo punto noi proponiamo alla Videocom un percorso alternativo che, in caso di uscita del gruppo, deve concorrere con il sindacato e con il Ministero dello Sviluppo economico a trovare una società che subentri e che abbia a cuore quattro condizioni: la prima è che subentri un imprenditore industriale, e non una società finanziaria; la seconda è che questo imprenditore industriale debba investire e portare nuova linfa e nuove risorse economiche; la terza riguarda la necessità di progetti industriali seri, e infine bisognerà tener conto dell’aspetto occupazionale, perché stiamo parlando di 1.300 lavoratori, tutti in cassa integrazione. Sulla base di queste quattro condizioni noi, il Ministero dello Sviluppo economico e la stessa società indiana abbiamo vagliato circa una decina di aziende, ma la maggior parte riguardavano altre attività lavorative che non riguardavano niente con questioni industriali. La scelta è così ricaduta su un’azienda canadese-slovacca che ha intenzione, secondo il progetto presentato un anno fa, di produrre tegole termiche fotovoltaiche e altri prodotti di energia alternativa, portando però a compimento uno dei quattro aspetti, quello sull’occupazione, soltanto per 850 persone.
Quindi ne resterebbero fuori 450 persone, e ad oggi siamo ancora fermi a questa proposta di un anno fa, credo ancora valida, anche se abbiamo bisogno di altre proposte industriali per gli altri 450 lavoratori». Angelo Caolombini spiega poi che «un anno fa, nel percorso per trovare nuove proposte, è emerso qualcosa di molto preoccupante: si è scoperto che la società indiana aveva, e ha tuttora, un debito di circa 82 milioni di euro, al 48% con Banca Intesa e al 52% con altri creditori del posto. Un anno fa l’azienda ha iniziato a fare questa ristrutturazione del debito attraverso la legge 182 bis, per risentire tutti i creditori e fare con loro un accordo per capire come fosse possibile liquidarli. Qualche mese fa non è però stato trovato l’accordo con Banca Intesa, e questo ha provocato la richiesta di ammissione di concordato preventivo, e oggi ci troviamo in questa situazione: bisogna quindi ricontattare tutti i creditori e fare una nuova offerta rispetto ai debiti che la società ha nei confronti di queste agenzie, e il Tribunale di Frosinone deve nominare il commissario o i commissari i quali devono dare parere di ammissibilità al concordato stesso. Finché non subentra il commissario, che ad oggi non è stato ancora nominato, siamo ancora in una fase dove regna un grande punto di domanda. Inoltre il concordato preventivo potrà andare a buon fine nel momento in cui la trattativa sarà portata a termine con almeno il 51% dei creditori: diversamente, interverrà il fallimento, che noi vogliamo assolutamente scongiurare, perché significherebbe togliere ogni opportunità ai lavoratori di essere rioccupati all’interno di una attività produttiva. Non a caso, nella proposta di concordato preventivo, c’è anche una possibilità di affittare subito l’azienda a questa società canadese-slovacca: questo potrebbe significare ricominciare a far lavorare le persone, rimettere in moto gli impianti e ridare ossigeno e credibilità alla nostra proposta».
(Claudio Perlini)