«In realtà non si tratta di un’idea così originale: basti pensare che “Scialla” era già il titolo del disco di qualche anno fa dei cantanti di “Amici” e questo ci dice quindi che il cinema riprende una cosa che la musica fa già da tanto tempo. Alla fine degli anni Ottanta, nel suo primo album italiano, Jovanotti cominciò ad utilizzare questo linguaggio giovanile all’interno delle canzoni, come anche più tardi gli 883. Si tratta quindi di un meccanismo elementare di identificazione, in cui ci si riconosce in ciò che si ascolta, ed è un meccanismo che funziona sempre, ormai anche usato dai nostri politici per far presa sulla gente che, ascoltando un linguaggio molto semplice, si riconosce in loro». Insieme a Giuseppe Antonelli, docente di Storia della lingua italiana presso l’Università di Cassino, commentiamo i cambiamenti della lingua giovanile nel tempo e il suo utilizzo nella musica e nel cinema, partendo dal recentissimo film “Scialla”, di Francesco Bruni, che ha vinto alla Mostra del cinema di Venezia la sezione Controcampo italiano.



Questo utilizzo dello slang nel cinema non rappresenta quindi una novità?

Il cinema lo ha fatto meno, ma qualcosa avevamo già visto in passato con “Notte prima degli esami” e addirittura un tentativo era stato fatto con il doppiaggio de “Il tempo delle mele” di tanti anni fa.  Quindi non è una cosa nuova, e il meccanismo è più che altro commerciale, quindi non legato tanto al realismo, quanto al pubblico a cui ci si rivolge.



Si possono trovare delle analogie con le borgate romane raccontate da Pasolini?

No, non c’è nulla in comune con la scelta fatta da Pasolini a suo tempo con “Ragazzi di vita”, in cui era presente un gergo che però non era giovanile, ma legato alle borgate. Inoltre in quel caso c’era un vero intento di imitazione della realtà, mentre qui il fine appare più che altro commerciale. Tra “Scialla” e Pasolini ci sono soltanto alcune parole in comune, come “pischelli”, che possono apparire termini nuovi, ma in realtà hanno una storia molto lunga. Penso anche ad altre parole ormai entrate nel lessico nazionale, come “scrauso”, che è stata presentata anche nell’edizione di quest’anno dello Zingarelli come parola nuova, ma che in realtà, oltre a circolare già da molto tempo nel linguaggio giovanile romanesco, è antichissima: è infatti attestata la prima volta nel 1527. Anche altre parole sono presentate come nuove, come “calla” per dire “caldo”, che invece circola addirittura dall’800, quindi molte espressioni del linguaggio giovanile romano affondano le radici in un dialetto tradizionale, a volte addirittura antico.



Si può parlare di un miglioramento o di un peggioramento del linguaggio giovanile nel corso del tempo?

La lingua non migliora e non peggiora mai, ma si evolve. Nella fattispecie non credo che questo linguaggio giovanile sia così rivoluzionario rispetto a quello di dieci o vent’anni fa, perché quasi tutte le espressioni che vedo e sento, come “fa rate” per dire che fa schifo o “un botto” per dire molto, già esistevano molto tempo fa. Allora possiamo porci un interrogativo: è il linguaggio giovanile ad essere cambiato poco negli ultimi decenni, o invece sono il cinema e la musica che continuano a offrire un’immagine più cristallizzata di questo? Il linguaggio giovanile nasce proprio per essere diverso da quello degli adulti, coniando in continuazione nuove espressioni, quindi è impossibile stargli dietro. Sono anche stati fatti diversi tentativi di creare un dizionario dello slang dei giovani, ma alla fine l’unico modo per farlo è stato un dizionario storico del linguaggio giovanile, uscito qualche anno fa. Inoltre certe espressioni sono molto legate al dialetto e a un luogo, e non esiste uno slang giovanile nazionale, ma cambia tantissimo in base ad una particolare realtà locale.

Come mai il dialetto romanesco è uno dei più usati sia in televisione che al cinema?

Da sempre il dialetto romanesco ha una presa particolare sul linguaggio cinematografico: storicamente perché le maggiori produzioni avvenivano a Cinecittà, e poi perché rispetto ad altri dialetti, il romanesco è molto simile all’italiano e quindi ha il vantaggio di offrire da una parte una patina di località, di “folclore”, ma al tempo stesso di comprensibilità.

In che modo influiscono i nuovi media sul linguaggio dei giovani?

La sensazione nettissima è che influiscono molto poco sul modo di parlare, mentre potrebbe cambiare, anche se è difficile dirlo, il modo di scrivere dei giovani, e in prospettiva anche degli italiani. Possiamo però dire che con l’avvento dei nuovi media gli italiani scrivono moltissimo, cosa prima totalmente impensabile. Ci sono stati degli studi sulle lettere cartacee degli anni Ottanta, ed è stato visto che negli Sms, nelle e-mail e nei messaggi su Facebook si ritrovano tantissimi caratteri linguistici identici, come l’esagerato uso della vocale “o” alla fine di “ciao”, o nell’uso delle maiuscole e anche nell’uso della lettera “k”. Questo per dire che gli adolescenti di trent’anni fa e quelli di oggi non scrivono in maniera poi così differente ma, come dicevo, è cambiato il fatto che oggi molti più giovani scrivono. Anche le forme di abbreviazione sono usate da sempre, e spesso sono proprio le stesse: anche Leopardi per scrivere “dicembre” scriveva “Xbre”, mentre addirittura nel primo documento ufficiale della lingua italiana, il “Placito Capuano” del 960 d.C., si diceva “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene…”, quindi con un uso di della lettera “K” che ancora oggi avviene tra i giovani.

 

(Claudio Perlini)