Roma. L’Unione sindacale di base continua la propria battaglia contro l’emendamento inserito nell’assestamento di bilancio della Regione Lazio: la norma prevede infatti la riduzione dello spazio minimo per bambino negli asili, che da 10 passa a 6 metri quadri. Nello stesso articolo di legge, il numero 4, viene modificato anche il rapporto numerico minimo tra educatori e bambini che, da un insegnante ogni 6, passa a uno ogni 7. «Ancora un nulla di fatto al Comune di Roma nella trattativa sui nidi comunali, – denuncia l’Unione sindacale di base – che prosegue da oltre due mesi in virtù delle modifiche deliberate dalla Regione Lazio con la manovra di assestamento del bilancio, approvata con la legge n. 12 del 13 agosto 2011. Tali modifiche provocheranno un aumento dei bambini e delle bambine per ciascuna educatrice (da 6 fino a 10 in alcuni momenti della giornata) ed una riduzione prossima al 40% degli spazi pro capite. Ma il dato più preoccupante prodotto da queste modifiche, che il Comune di Roma si accinge ad approvare, – continua l’Usb – è costituito dal trattamento “usa e getta” a danno di centinaia di lavoratrici precarie che vedranno così chiudersi ogni prospettiva di lavoro. Il Comune di Roma, che durante la gestione Veltroni definimmo la fabbrica della precarietà, con Alemanno diventa la fabbrica della disoccupazione e rovescia principalmente sui piccoli utenti la gestione fallimentare di questi tre anni». Quindi, in conclusione, «l’Usb è dell’avviso che non si debbano applicare le norme peggiorative sui nidi approvate l’estate scorsa e difenderà con le unghie e con i denti il buon lavoro e la “buona educazione”. I tecnocrati comunali, pagati profumatamente, non possono chiedere sacrifici a chi, già da adesso, non arriva alla fine del mese». Per chiarire l’attuale situazione, IlSussidiario.net ha chiesto un commento alla giornalista e saggista Paola Liberace: «Il quadro generale mostra che la crescita dei servizi all’assistenza all’infanzia negli anni precedenti si è realizzata in gran parte grazie all’incremento di servizi privati, compresi quelli che passano sotto il nome di “integrativi”. Questo significa che ha funzionato quel piano di incentivi che ha previsto, accanto all’investimento del pubblico, anche  la sovvenzione affinché anche i privati riuscissero a gestire dei servizi. Mi sembra che questa protesta sindacale evidenzi un punto debole fondamentale della tesi di chi sostiene che i nidi debbano essere soprattutto pubblici: purtroppo i fondi a disposizione degli enti locali e di quelli a livello nazionale sono e saranno sempre più ridotti, quindi chi ha difeso fino ad oggi la qualità come unica prerogativa dei soli asili nido pubblici si trova di fronte alla necessità di un taglio della spesa pubblica, a livello locale come a quello nazionale,  che non è procrastinabile, e che incide negativamente sulla qualità del servizio .



Teniamo presente che questo problema non riguarda solo Roma: il quadro economico complessivo impone la necessità di intervenire con diversi tipi di tagli sulla spesa per il welfare. A questo punto credo utile riproporre l’idea di fondo della sussidiarietà: non necessariamente un servizio di interesse pubblico deve essere gestito dal pubblico. Ovviamente bisogna mantenere dei livelli di servizio e di qualità, tanto nel pubblico come nel privato: ma come questa protesta sindacale evidenzia chiaramente, non è affatto detto che i livelli di qualità tout court siano rispettati nel pubblico, a fronte del forte ridimensionamento. La contingenza storica in cui viviamo porterà in qualche modo a riconsiderare questo genere di prospettiva: mi auguro che si possa arrivare a riconsiderare gli asili nido come modello di risposta all’esigenza di conciliazione. Ad esempio, a livello comunale, si potrebbe lavorare sul piano dei tempi della città, nonché riprendere i progetti come le “banche del tempo” che in una città come Roma assumerebbero un’importanza fondamentale, vista la difficoltà negli spostamenti. Sempre a livello comunale si potrebbe lavorare tra amministrazioni e imprese per valutare quali siano i casi in cui è possibile ridurre questi spostamenti sul luogo di lavoro e avviare delle sperimentazioni, che darebbero certamente buoni frutti, su un lavoro “delocalizzato”». Riguardo al rischio di assistere alle cosiddette “classi pollaio”, Paola Liberace spiega che « l’esperienza passata ha già condotto a non assegnare a ciascuna educatrice un numero di bambini superiore a sei; ancora più auspicabile è che ci sia il minor turn over possibile nella gestione dei bambini da parte delle educatrici, figure di riferimento che si sostituiscono a quella genitoriale, e che quindi dovrebbero rimanere il più possibile costanti. Il problema è comunque alla base: abbiamo costruito un modello in cui le educatrici si sostituiscono al genitore, e ora ci ritroviamo a deprecare gli effetti di questo modello».



 

(Claudio Perlini)

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