Dove oggi si accampa un manipolo di indignati romani (precari, studenti, eccetera), un tempo c’era la dimora degli ultimi imperatori. Pazienza, sic transit gloria mundi. Poi venne una chiesa, costruita e riedificata e abbellita nei secoli; le venne annesso un convento di Certosini, custodi delle preziose reliquie che nel tempo vennero raccolte con devozione. Pezzetti della “Vera Croce”, ritrovati dalla madre di Costantino, Sant’Elena; come un brandello della spugna imbevuta d’aceto, un chiodo della crocifissione, parte della corna di spine…simboli della Passione, dubbie quanto ad autenticità, ma venerate dal popolo, non solo romano, e dunque rese sacre dalla fede. Diverso il discorso per il “titulus crucis”, quell’INRI che segnalava nome del condannato e motivo della condanna, all’attenzione di autorevoli archeologi e studiosi per la sua eccezionalità, e per l’alta probabilità che si tratti di un documento storico. Perché si chiama Santa Croce, una delle più belle basiliche romane, è dunque chiaro. Perché “in Gerusalemme”, è un lascito della memoria antica: nella Cappella di Sant’Elena infatti il pavimento era ricoperto con terra portata dalla Città Santa. Oggi i pellegrini, gli amanti dell’arte, ammirano il mosaico disegnato da Melozzo da Forlì, gli affreschi di Antoniazzo Romano, i sepolcri in pietra di Jacopo Sansovino. In una cappellina laterale,donne e ragazzi portano fiori alla tomba di Antonietta Meo, detta Nennolina, una bambina morta da santa a soli sei anni, per cui il papa Benedetto XVI ha voluto che si aprisse la causa di beatificazione.
Un luogo speciale, quel luogo. Perché trasformare il sagrato in un sit-in all’aperto che dura da quasi un mese, da quel dì tragico degli scontri a piazza San Giovanni che misero a ferro e fuoco la città, e fecero vedere al mondo il pacifismo dei manifestanti? Perchè trasformarlo in un accampamento “verde”, dove tra tende, panni stesi ad asciugare e barbecue improvvisati si coltivano piantine, verdure, mentre si montano prefabbricati in legno per proseguire l’occupazione ad oltranza, in nome della lotta alla crisi?
Una manifestazione folkloristica, innocua, creativa. Oppure un gesto inutile, demenziale, irrispettoso di una casa di preghiera, di un monumento caro ai romani e ai tanti turisti che lo visitano. Propendo per la seconda ipotesi. E’ necessario provocare per essere ascoltati? L’unica residua arma della ragione sono le pagliacciate, per ottenere un titolo nei tg? Quand’anche fosse, cosa mai si spera di ottenere? Che il parroco attrezzi la chiesa a dormitorio, trasformi le navate in ambienti d’assemblea, il pulpito in scranno per qualche arringapopolo? L’amministrazione comunale tentenna, e non si capisce perchè. Certo, qui non si tratta di rom o blackblock. Qui hanno provato a farli sgombrare, e non se ne vanno. Verrebbe voglia di aprire gli idranti, e innaffiare indignati nostrani e le loro piantine, in queste tiepide giornate novembrine, tanto per dare un segnale, che la città ha un governo, c’è chi ne è responsabile e le manifestazioni le autorizza, non le subisce. E non tollera gli abusi.
Suggeriamo un’alternativa: poichè i manifestanti si sono cimentati nell’agricoltura e nella cucina da campo, invitiamoli ad approntare ogni giorno un pasto completo per i poveri del quartiere, e dotiamoli anche di pentoloni capaci. Venite sul sagrato, c’è un pasto anche per voi, noi che subiamo la crisi diamo una mano per superarla, a chi sta peggio. Questo sì, che attirerebbe l’attenzione e perfino un’attestazione di stima.