Buone notizie per gli appassionati di musica di Roma e non solo. Il primo provvedimento approvato dal nuovo Governo corrisponde a un’attesa da tempo: riconoscere la funzione speciale del Teatro dell’Opera nell’ambito di Roma Capitale.

È con il vento in poppa che il 27 novembre, alla presenza del Capo dello Stato e in una sala addobbata a festa, è iniziata la nuova stagione di una rara fondazione lirica italiana che ha chiuso il bilancio 2010 in pareggio. Ciò è tanto più meritorio perché il tessuto produttivo di Roma è costellato da piccole imprese; quindi, la fondazione non può contare – come la Scala – su numerosi soci privati e su una vasta rete di sponsorizzazioni, ma sull’apporto principalmente del Fus e di enti locali tutti in serie difficoltà di bilancio.



Il decreto appena approvato definisce una procedura speciale per il Fus da destinare al Teatro romano. L’auspicio è che possa ritornare ai fasti avuti dall’inizio del secolo scorso alla metà degli Anni Settanta quando per numero di titoli, qualità degli spettacoli, fama e interesse in Italia e all’estero gareggiava su pari livello con la Scala. A rendere questo auspicio realizzabile c’è la decisione di Riccardo Muti di accettare la nomina  a Direttore Musicale a vita e della fondazione di ingaggiare in ruoli chiave i suoi più stretti collaboratori degli anni passati alla Scala.



La stagione 2011-2012 offre un cartellone ricco che – escludendo il programma estivo alle Terme di Caracalla (ancora non annunciato) – comprende otto titoli operistici (due soli “Madama Butterfly” e “Il Barbiere di Siviglia” in nuovi allestimenti), cinque di ballettoe un vasto e ben articolato programma di concerti. Si rafforzano, poi, grandi collaborazioni internazionali quali quelle con il Festival di Salisburgo, il Covent Garden di Londra e i Teatri di Madrid e di Barcellona.

L’opera inaugurale è “Macbeth” di Giuseppe Verdi nell’allestimento presentato questa estate a Salisburgo, con scene e regia, però, adattate al palcoscenico romano. È un titolo particolarmente adatto perché tanto la tragedia di Shakespeare quanto il melodramma verdiano sono imperniati sul “gioco del potere”, tema centrale a una Capitale di cui la politica è sempre stata il cuore. Quale “Macbeth” abbiamo visto e ascoltato il 27 novembre (le repliche durano sino all’11 dicembre)?



Pochi sanno che i “Macbeth” verdiani sono tre: quello del 1847 che ebbe la prima al Teatro La Pergola di Firenze; quello del 1865, fortemente rimaneggiato, per il Théâtre Lyrique di Parigi e aggiornato di nuovo per La Scala nel 1874.
L’edizione del 1874 è raramente citata nelle stesse storie delle musica e viene messa in scena solo di tanto in tanto: se ben ricordo, l’ultima volta che è stata vista è circa un lustro fa allo Sferisterio Festival di Macerata.

Per la versione vista e ascoltata a Salisburgo, il direttore musicale Riccardo Muti e il regista Peter Stein hanno scelto una combinazione della versione del 1847 e di quella del 1865. Quindi, per molti aspetti un “unicum” che forse entrerà in repertorio all’Opera di Vienna.

“Macbeth”è la più breve e più compatta tragedia di Shakespeare. Narra della cruenta ascesa del protagonista, istigato dalla moglie, al potere assoluto e della sua successiva caduta. Quindi, sangue e guerra, nonché follia. A mezza strada tra un melodramma donizettiano (la prima versione) e un dramma in musica prossimo a “Don Carlo”, “Aida” e “Otello” (la terza versione), senza un ruolo importante per un tenore spinto, con un soprano drammatico il cui registro deve sfiorare quello del contralto, l’opera ha avuto nell’Ottocento un successo intenso, ma breve. Sparì dai cartelloni verso il 1880. Venne rilanciata da un’edizione strepitosa diretta da Vittorio Gui e successivamente dalla proposizione alla Scala il 7 dicembre 1952 con Victor De Sabata nel podio e Maria Callas protagonista. Quasi contemporaneamente Luchino Visconti ne fece una memorabile edizione al Festival dei Due Mondi a Spoleto.

“Macbeth” è opera difficile. Nel suo epistolario, Verdi richiedeva “voci efficaci, anche se non belle”. La direzione musicale è affidata a Muti; quella drammaturgica a Peter Stein. È un’edizione particolare (anche rispetto alle precedenti dirette da Muti) in quanto combina la versione dl 1856 pensata da Verdi con quella del 1847: termina con la morte del protagonista (versione 1847) non con l’inno di vittoria degli esuli scozzesi tornati in Patria (versione 1856).

Notevole l’abilità di Muti nel dare omogeneità a due lavori appartenenti a fasi in cui la scrittura verdiana, specialmente quella orchestrale, era mutata; la concertazione di Muti ha tempi larghi, un piglio meno battagliero di quello delle precedenti edizioni da lui dirette e una maggiore attenzione ai dettagli. L’orchestra e il coro rispondono con grande efficacia.

Nel cast (tutto di livello), spicca la Lady interpretata da Tatiana Serjan, piena di temperamento scenico; nella scena del sonnambulismo di rilievo il suo Sì bemolle in pianissimo. Dario Solari è un Macbeth che controlla gli acuti e opta per il sussurrato in intere scene. Antonio Poli (Maduff) in una sola aria dà sfoggio di una vocalità già ricca, non più piena di promesse. L’ambientazione spoglia di Ferdinand W Gerbauer e l’attenzione alla recitazione e ai movimenti della masse di Peter Stein danno un quadro solenne a una tragedia essenzialmente psicologica.

Enorme successo e cena di lusso al Grand Hotel.