Oggi Papa Benedetto XVI si recherà in visita al carcere romano di Rebibbia. In occasione di questo importante avvenimento, e di ciò che rappresenta per tutti i carcerati e per il sistema penitenziario del nostro Paese, publichiamo una lettera scritta nel novembre 2005 (allora pubblicata dalla rivista Tracce) da una decina di detenuti che uno di loro – Ilario – lesse in pubblico il giorno della presentazione delle attività svolte dalla cooperativa Giotto nel carcere Due Palazzi di Padova (Giotto era operante nel carcere dal 1991).



La lettera venne inviata a Papa Benedetto XVI e all’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

Illustrissime Autorità di ogni ordine e grado, Signori e Signore, Rivolgo un saluto a nome di tutti i miei compagni di lavoro e detenzione. 

Mi chiamo Ilario e sono detenuto dal 1985 per rapina e omicidio. Dal 1998 sono in questo carcere e qui ho avuto la possibilità, nel 2002 dopo anni di ozio forzato, grazie alla Direzione, di essere inserito nel gruppo di dipendenti della cooperativa Giotto nella produzione di manichini in cartapesta. Essendo uno dei più anziani dipendenti della cooperativa Giotto all’interno del carcere, in qualche modo sono stato incaricato a spendere alcune parole e a rappresentare i miei compagni. Il messaggio che abbiamo preparato vorremmo affidarlo a nomi di tutti all’illustrissimo Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e a Sua Santità Papa Benedetto XVI. Come all’esterno, anche in carcere il lavoro è molto importante, anche se – a dire il vero – diverse persone finiscono qua proprio per non aver voglia di lavorare, quindi può sembrare paradossale che proprio dei detenuti acclamino tanto la necessità del lavoro dietro le sbarre.



Il poter lavorare, per me (come per la maggior parte delle altre persone detenute) ha significato in primo luogo di non dover più chiedere aiuti economici ai famigliari, e credetemi non è per niente piacevole sapere che un genitore anziano si priva anche delle cose più necessarie, pur di dare una mano al figlio. Il poter lavorare fa sì che, anziché sentirsi un peso, si possa essere d’aiuto ai propri cari. Il poter lavorare significa anche affrontare la detenzione in maniera diversa, costruttiva, evitando di starsene buttati su una branda per 20 ore al giorno. Personalmente spero che con il passare del tempo sempre più aziende, in sempre più carceri, possano prendere la strada che da tempo ha intrapreso la Giotto, che ha investito risorse ed energie con l’incognita di dover lavorare con persone che, in fatto di rispetto delle regole, non sono proprio un esempio. Queste aziende daranno la possibilità ad un numero sempre maggiore di detenuti di poter lavorare. 



Vorrei precisare che non è mia intenzione denigrare il lavoro offerto dall’amministrazione penitenziaria, ben vengano i lavori cosiddetti “domestici”, che però possono soddisfare un numero più esiguo di detenuti. C’è da dire anche che chi si prepara ad uscire, anche fosse solo in misura alternativa alla detenzione, avrà certamente un percorso più facilitato se si presenterà da qualche azienda con un curriculum fornito da una ditta come la Giotto che prepara anche professionalmente i suoi dipendenti in attività riconosciute nel mercato del lavoro. È vero che si fa veramente poco di utile ed efficace per il reinserimento dei detenuti, come è pur vero che ancor di meno fanno i detenuti per mantenere e incrementare nel modo giusto quello che l’Istituzione, i volontari e le cooperative fanno per noi. 

È l’umanità, che in tutti (dentro e fuori, ladri e guardie) è ridotta a lumicino. Non è facile dire queste cose, soprattutto per tutti gli errori commessi, ma oggi più che mai è un momento in cui occorre ricostruire, dentro come fuori. Noi siamo chiamati per primi a scardinare una mentalità, delle usanze, dei regolamenti, delle leggi, quelle del carcere, che ormai sono diventate delle incrostazioni difficili da togliere. Ma l’esempio di oggi dice che la vita cambia a chi di noi seriamente accetta di vivere con lealtà e con verità quel poco di buono che arriva.

L’altra cosa che dobbiamo fare è poi imparare a fidarci gli uni degli altri e credere, come chi lo ha fatto nei nostri confronti, che le cose così vissute possono cambiare la vita non solo di una persona, ma di un gruppo di persone, di un carcere. È con questo sentimento che ci siamo permessi di indirizzare questo pensiero al presidente Ciampi e al Santo Padre Benedetto XVI. Occorre che pur pagando quello che ognuno di noi deve pagare, ciascuno sia aiutato a guardare a una prospettiva e ricordatevi che, quando ci si rende conto del male fatto, non si vorrebbe più finire di scontare la pena e anche, quando la si è finita di scontare, il dolore che rimane nel cuore è grande. Non sono sentimenti comuni tra di noi, come pure quello che vedete oggi non è la normalità: è un piccolo grande esempio. Aiutate chi si rende disponibile ad aiutarci, aiutateci a trovare e a vedere una speranza. Ma ciò che dà consistenza alla speranza è il perdono, è la grazia, parola scomparsa da 10 anni nella dicitura del nostro Ministero di riferimento. Non ci è semplice dire questo. 

Illustrissimo presidente, Sua Santità, a Voi tutti presenti, il nostro è un grido di aiuto. Si mobilita forse mezzo mondo per ricercare un disperso o salvare una persona in pericolo. Credeteci, almeno una persona così in ogni carcere d’Italia c’è.

Senza alcuna pretesa e con gratitudine