Non c’è tregua. Non c’è il tempo di un respiro. L’ondata giudiziaria che a livello nazionale sta scatenando fibrillazioni, prove di forza a catena e conflitti di potere, sembra destinata ora a investire anche l’altro gradino della politica, quello delle amministrazioni locali. Prima Napoli e la Campania, poi Venezia e adesso ancora Roma, con una valanga di accuse contro il consigliere di centrodestra Francesco Maria Orsi, ex broker e già delegato al “decoro urbano” e all’Expo di Shanghai, i cui guai – a leggere le cronache di questi giorni – sembrano essere soltanto ancora all’inizio.



Non è questa la sede per emettere sentenze, per assolvere o condannare. L’idea neppure ci appassiona. Toccherà ai giudici – e prima ancora allo stesso Orsi, che dice di poter dimostrare la propria totale estraneità ai fatti – chiarire quanto ci sia di vero dietro tali contestazioni, dietro questi sospetti di malaffare che raccontano dettagli di reati odiosi. Parimenti ciascuno avrà occasione e possibilità di esprimere un proprio giudizio su quanto legge, visto che certo non sono le informazioni che mancano.



Ma la domanda – e la preoccupazione – è piuttosto un’altra, in un momento in cui nel nostro Paese alla parola politica è sempre più spesso associata l’idea di cricca, di malaffare, di sotterfugio. Ed è quella che è ormai sulla bocca di tutti: la politica è una cosa sporca? O è solo, appunto, occasione di malaffare? Siamo davvero condannati alla corruzione? E perché? Come si può disincagliare il Paese dalle tempeste, grandi e piccole, nelle quali ci troviamo? Sono tutte domande – va detto subito – assolutamente legittime, visto che da quindici anni siamo stati abituati a processi – spesso sommari – direttamente sui giornali.



Se vogliamo restare solo nel campo della politica, va innanzitutto rilevato come il problema della corruzione trova terreno fertile nell’inefficienza della macchina pubblica. È appena il caso di ricordare quello che scrisse il rapporto Doing Business 2010 della Banca Mondiale, volto a valutare i costi del fare impresa. Ebbene, lo score dell’Italia è sconfortante: 78sima su 183 nella classifica generale, preceduta da paesi come Perù, Ruanda, Macedonia, Botswana, Bielorussia, Azerbaigian e molti altri. Un Paese, l’Italia, dove avviare una attività imprenditoriale è più difficile che nello Yemen. E dove ottenere un credito è più complicato che nello Zambia.

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Sono l’intromissione pesante e l’estrema burocratizzazione della macchina pubblica uno degli elementi che favoriscono la corruzione. E forse bisognerebbe riflettere su quanto ebbe a scrivere Oscar Giannino, proprio nel commentare la presentazione di quel rapporto: «Eccesso di pubblico, laddove non dovrebbe esserci e organizzazione del pubblico in modo da esaltare veti e patronage clientelari, al posto di rapidità ed efficienza. È questo il problema italiano. E la sua cura radicale è meno Stato e migliore Stato»

 

A questo si collega un altro aspetto su cui riflettere. Il bene comune non può essere delegato allo Stato, anche se quella politica è una vocazione al bene comune e anche se la funzione peculiare della politica è proprio quella del servizio. Ce lo hanno insegnato i nostri padri – in altre stagioni, anche più drammatiche – quando la rinascita dell’Italia cominciò con un gruppo di giovani, intellettuali e non, animati da guide competenti, che decise di prendere in mano il proprio destino e quello del loro Paese.

 

E fa una certa impressione rileggere oggi quello che scrisse nel luglio del 1943 il gruppo di laureati cattolici che diede vita al cosiddetto Codice di Camaldoli, che inizia affermando: «L’uomo è un essere essenzialmente socievole: le esigenze del suo spirito e i bisogni del suo corpo non possono essere soddisfatti che nella convivenza». E ancora: la società si deve fondare non su «una somma di individui», ma «sull’unione organica di uomini, famiglie e gruppi determinata dallo stesso fine, il bene comune, e dall’effettiva convergenza delle volontà umane verso la sua attuazione» (n. 3). La società organizzata a Stato è «un’unità d’ordine» (n. 4), e il suo fine «è la promozione del bene comune» (n. 6). Da questo discende che «la sovranità statale non è illimitata, i suoi confini sono segnati dalla sua ragione di essere che è la promozione del bene comune» (n. 8); mentre le funzioni specifiche dello Stato devono essere quelle «dell’organizzazione e tutela del diritto e dell’intervento nella vita sociale» (n. 13).

 

Se questo è vero, contrasta con il principio di sussidiarietà qualsiasi forma di burocratizzazione, di assistenzialismo, di supplenza ingiustificata dello Stato: «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche», scriveva Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus.

 

Questa dunque la strada. E ogni machiavellismo, ogni deviazione, ogni guida azzardata, ogni tentativo di sorpasso o di difficili scorciatoie – come ben sa anche l’ultimo dei patentati – espone al rischio di paurosi incidenti.

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