Chiedi a Giuseppe De Rita di cosa parla il 44° rapporto del Censis sulla società italiana, e ti risponde con una storia antica e suggestiva: «Mi ricordo quando ero ragazzino, e frequentavo l’istituto Massimo, in zona Termini a Roma. I padri gesuiti avevano a cuore l’insegnamento dell’autocoscienza, della responsabilità, del bene comune. Ma il legame con la realtà delle cose, con i problemi di sempre, era fortissimo. Ogni giorno, erano tempi di guerra, ci riempivano di minestra la scodella che ci portavamo. Il tempo di arrivare a casa, a San Giovanni, e si era raffreddata. Ma avevi da mangiare tutti i giorni».
Non c’era bisogno di scrivere un trattato, di elaborare una teoria da buoni intellettuali. Il compenetrarsi di bisogno spirituale e necessità concreta era lì, passava dalle piccole cose, tangibilissimo. «Dei miei compagni uno era figlio di merciaio, l’altro del lattaio, l’altro del grande costruttore. Ma quella generazione aveva in comune un fortissimo desiderio di rispettare il bene pubblico, sentirne il valore per la collettività». Basterebbe fare gli esempi di Gianni De Gennaro, o di Mario Draghi, per comprendere che le parole di De Rita fanno appello ad un’esperienza sotto gli occhi di tutti.
«Il nostro rapporto – un tomo ponderoso, che occupa la sua bella fetta di spazio anche nella libreria più capiente – vuole in sostanza affermare che c’è un valore fondamentale da riscoprire nella nostra società: quello dell’autocoscienza».
Un valore che non è confinabile ad una dotta disquisizione psicologica. Senza comprendere chi si vuole essere, dove si vuole andare si smarrisce la «connessione tra sé e la società. Senza autocoscienza, dunque, il mondo diventa insensato». «Per molti anni abbiamo messo da parte questa consapevolezza», spiega De Rita, «il sistema andava per conto suo, tutto era facile, tutte le pulsioni assecondate».
Non a caso, secondo il presidente del Censis, il discorso dell’autocoscienza si lega al grande discorso della fede: «Leggetevi per esempio l’ultimo grande libro di Eugenio Scalfari. Un lungo viaggio nella sua vita, tutta segnata da problema della coscienza. La razionalità innanzitutto. Ma arrivi alla fine e trovi lui che si chiede: alla fine del percorso, la coscienza, la razionalità, dove vanno a finire? Rischiano di rifuggire a se stesse. Una ragione che uccide se stessa», se non viene sostenuta da una spiritualità. «La coscienza razionale non basta», dunque, ma oggi il più grande problema della società italiana è che «la dimensione collettiva riduce la capacità di autocoscienza».
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Per De Rita è saltato il rapporto «tra la legge e il desiderio». Il confine tra che cosa è peccato e che cosa è reato è diventata labile, fumoso. «La nostra mente è costantemente dominata da due tensioni, quella di desiderare e quella di rispettare le regole». Oggi manca del tutto chi possa condurre per mano in un percorso esperienziale che porti a discernere e ad armonizzare questi due elementi. Da qui, secondo il decano dei ricercatori italiani, la totale perdita di valore delle figure materna e paterna. Della famiglia, in poche parole.
«C’è un’offerta traboccante, che annulla il desiderio dell’uomo». Basti pensare ai 3600 corsi di laurea che erano previsti dalla riforma Moratti «ora ridotti solo per l’impossibilità di sostenerli». Una mancanza di punti di riferimento che porta a smarrire la bussola. «Oggi non si parla di desiderio, tu non desideri più nulla. Esistono solo pulsioni, e tutto diventa soggettivo». Il vero problema non è più domandarsi del perché di un’azione sociale, del perché si è quello che si è e si fa quel che si fa, ma è «riempire la propria soggettività di emozioni». Si è dato vita, così, negli anni, ad una «società indistinta, senza regole».
Ma cosa c’entra tutto questo con il faticoso lavoro di ricerca del Censis? «C’entra, perché la chiave per rimettere in moto la propulsività della società italiana è tornare a desiderare, rimettere in funzione il “motorino” interno che regola legge e desiderio».
In questo modo si ritorna a riempire quello che è diventato lo slogan vuoto del “bene comune”, «che è un’espressione che non vale nulla se non diventa antropologicamente rilevante».
Basti pensare alle grandi richieste delle persone, che sono oggi riscontrabili andando in giro per le strade, sui mezzi di comunicazione. Oltre ai grandi beni di consumo «tutto si riduce a “Berlusconi vattene”». Non che il premier non abbia una parte di responsabilità. «Alla fine degli anni ’70, Craxi mi spiegò come intendeva rivoluzionare i meccanismi decisionali del Paese. Secondo lui ci si doveva muovere secondo questo schema: metodi decisionisti, per attuare i quali bisognava verticalizzare le decisioni, e personalizzarle attraverso una mediatizzazione della politica per la quale occorrevano soldi».
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Berlusconi ha realizzato un «craxismo post-mortem, che ha determinato una diffusa perdita della rappresentanza politica». Il futuro politico dell’Italia, secondo De Rita, si gioca nella capacità di trovare le risorse per tornare indietro da questo modello. Oggi, «mentre la società si sta riadattando, e questo percorso appare possibile, la politica sembra ancora incapace».
Ma quella relativa al Palazzo è solo una parte marginale del problema. «Secondo i nostri dati oggi nel Paese ci sono circa due milioni di ragazzi che non lavorano e non studiano. La cartina tornasole di una società nella quale tutto diventa normale, nella quale manca anzitutto la capacità di fornire stimoli e risorse alle nuove generazioni per impegnarsi come classe dirigente. E «quella di Marchionne è una risposta da apolide. È nato in Canada, vive tra Torino e Detroit. È impregnato di una cultura che non è la nostra».
Per questo diventa una soluzione estemporanea alla necessità di formare una classe dirigente che renda competitivo il Paese: «Non apolidi, ma persone che si formino qui da noi, che siano radicate nel territorio». Per questo la sfida più grande non è aumentare il numero dei corsi, ma riuscire a dare vita ad un sistema scolastico ed universitario d’elite. Ma prima ancora occorre tornare a desiderare. «Perché la vera tragedia, oggi, è vivere non desiderando nulla».
(Pietro Salvatori)