Sono mesi ormai che i dati mostrano una lieve ripresa dell’economia italiana senza che però il livello di disoccupati scenda in modo sensibile. È la ripresa senza occupazione anticipata da tanti economisti? Forse, ma non è una situazione ineluttabile. La rigidità del mercato del lavoro può essere affrontata, e gli strumenti per farlo in parte esistono già. Ne parliamo con Antonio Zorzi – sindacalista, già segretario nazionale dei metalmeccanici della Cisl, ora vice-presidente di Fondartigianato, un fondo interprofessionale che si occupa di formazione continua.
Zorzi ci mostra uno studio secondo cui il deficit di formazione nel campo delle risorse umane costa all’economia italiana perdite pari a una decina di punti di Pil, maggiori di quelle legate al deficit infrastrutturale e alla lentezza della burocrazia. «La formazione continua può essere una grande leva di produttività – commenta Zorzi – per risolvere il problema della scarsa efficienza della nostra manodopera». Ci facciamo spiegare allora cos’è e come funziona la formazione continua, anche per rispondere alle provocazioni sulla dinamicizzazione del mondo del lavoro e sul ruolo della “bilateralità” lanciate dal sussidiario con l’editoriale di Giuseppe Barbato.
Partiamo dai fondamentali. Cos’è un fondo interprofessionale e a cosa serve?
«I fondi interprofessionali gestiscono denaro che arriva dalla contribuzione delle imprese, tramite l’Inps. Ogni azienda può decidere se destinare lo 0,3% del monte salari ad un fondo interprofessionale; non c’è nessun onere aggiuntivo, si tratta solo di scegliere la destinazione di una parte della contribuzione che si paga già. In cinque anni i fondi interprofessionali hanno gestito risorse per oltre un miliardo di euro».
Il meccanismo quindi è lo stesso del 5 per mille? Che informazioni hanno le aziende sui fondi interprofessionali?
«Le aziende conoscono ancora poco questo meccanismo, molte non sanno neppure che esiste. L’adesione è libera, la gestione dei fondi è bilaterale: la governance è affidata ai datori di lavoro e ai sindacati che stanno nel settore. Lo Stato non interviene direttamente, si tratta di enti privati che gestiscono denaro pubblico».
E quante sono le aziende che effettivamente aderiscono ad un fondo? I dati sono gli stessi in tutta Italia o cambiano da Regione a Regione?
«Un terzo circa dei lavoratori in Italia aderisce ad un fondo interprofessionale. Per quanto riguarda Fondartigianato siamo al 43% dei lavoratori del settore, ma il dato cambia molto viaggiando per l’Italia: si va dal 56% del Nord al 17% del Sud. Il Lazio “brilla” in negativo per essere fermo all’8%, mentre in Emilia Romagna si sfiora il 100%. Ma tornando al livello nazionale, secondo alcuni calcoli grazie a questo meccanismo ogni lavoratore “accantona” circa cinquanta euro l’anno per propria formazione. Soldi che poi vengono reinvestiti in corsi di aggiornamento professionale a suo beneficio».
In che modo i soldi “accantonati” tornano al lavoratore?
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«I fondi professionali servono a finanziare progetti di formazione continua, non a gestirli. Noi emettiamo dei bandi, e a partire da una serie di studi di carattere generale e settoriale indichiamo le aree in cui sarebbe bene impegnare questi soldi: ad esempio l’innovazione delle imprese, la professionalizzazione dei lavoratori, la sicurezza sul lavoro…».
Come fanno le piccole imprese ad inserirsi in questi progetti?
«I nostri “terminali” sono la rete delle associazioni datoriali e sindacali presenti sul territorio e le agenzie di formazione. I progetti di formazione sono destinati anzitutto ai lavoratori dipendenti, ma da ultimo anche ai lavoratori in cassa integrazione o in mobilità. Da qualche tempo per le piccole imprese esiste la cassa integrazione in deroga, finanziata a spese dell’erario. Per usufruire di questa “politica passiva”, però, le piccole imprese devono impegnarsi a fare della formazione, cioè un intervento di “politica attiva”. I fondi interprofessionali, in un periodo di crisi come l’attuale, hanno operato in questa direzione e nell’orientare i lavoratori a rischio di perdere il posto di lavoro. Quindi è auspicabile sviluppare una sinergia tra i fondi interprofessionali e i soggetti – pubblici e privati – deputati alle politiche di inserimento».
Quindi un nuovo modo di operare tra attori della formazione e del lavoro?
«Le Regioni hanno un ruolo rilevante in materia di formazione professionale, ad esempio hanno competenze sulla formazione degli apprendisti e dei titolari d’azienda, mentre noi ci dovremmo occupare solo dei lavoratori dipendenti. Immaginate una piccola azienda con un titolare, due apprendisti e due dipendenti: oggi ciascuno di loro dovrebbe rivolgersi ad un ente diverso. Stiamo cercando allora di integrare le nostre azioni, per offrire un servizio più completo ed efficace ad aziende e lavoratori. Se poi vogliamo immaginare un intervento davvero completo, integrando politiche passive, attive e formazione, dobbiamo coinvolgere anche i centri regionali per l’impiego e le agenzie del lavoro private, a partire da quelle che sono espressione dell’associazionismo».
Serve cioè una maggiore integrazione tra pubblico e privato?
«Serve un sistema sussidiario. C’è un compito del pubblico nel verificare il rispetto di certi standard, ma è nell’interesse della gente che ci sia una coralità di soggetti e una pluralità di opportunità effettivamente accessibili. Un sistema che metta effettivamente al centro le persone e i loro bisogni concreti».
(Lorenzo Biondi)