A pochi giorni dalla conclusione della grande kermesse del Palazzo dei Congressi dell’Eur, ora che siamo a conoscenza del Piano di sviluppo di Roma Capitale con i suoi 225 progetti, proviamo a fare il punto della situazione.
Roma è ancora caput mundi. Con le parole del messaggio inviato in apertura degli Stati Generali dal presidente Napolitano, è «grande capitale internazionale», forte di una «straordinaria universalità culturale e religiosa». Una città con enormi risorse e potenzialità in campo economico, culturale, storico-artistico. Basti pensare all’immenso patrimonio archeologico, invidiato da tutto il mondo, tanto che il 5% della popolazione indiana – 50 milioni di persone che hanno già oggi un reddito adeguato – sarebbe pronto a partire subito per ammirare e studiare le bellezze della nostra città. Un esempio significativo di un’opportunità non ancora colta: siamo nell’anno ufficiale di collaborazione tra Italia e India, una delle principali economie mondiali, ma quasi nessuno ne parla o sembra occuparsene.
Nei Paesi del cosiddetto BRIC d’altronde non si perde tempo. In India hanno pianificato le attività economiche al 2030, pensando anche a noi. Stanno preparando medici e paramedici che parlino perfettamente la nostra lingua, da inviare in Italia per coprire i nostri futuri buchi di organico. È il caso di domandarsi: ma Roma è pronta per tutto questo?
Difficile dare una risposta positiva, al di là dei toni trionfalistici buoni per le grandi occasioni. Negli ultimi tempi la città ha perso posizioni in tutti i settori, così come ha riconosciuto in apertura degli Stati Generali anche il presidente di Unindustria Aurelio Regina.
Una situazione sotto gli occhi di tutti. La Capitale è terreno di scontro tra forze, per di più alleate, che di fatto ne paralizzano il governo. L’amministrazione capitolina si accapiglia con via XX Settembre sul numero degli assessori in Giunta, ma non ha un concreto piano economico d’intervento, né sembra rendersene conto. Tutto si concentra su singole imprese ciclopiche, che sicuramente hanno il vantaggio di essere dotate di un forte appeal. Il programma degli Stati Generali parla di candidatura per i Giochi del 2020, un obiettivo encomiabile per lo sviluppo futuro della città. Ma sull’hic et nunc la programmazione mostra il fianco scoperto.
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Alcuni esempi. Nel Piano Strategico non si spende una parola in riferimento alla valorizzazione delle micro e piccole imprese del territorio, da sempre risorsa prioritaria per la città. O ancora. Il Campidoglio intende restaurare il Colosseo con il contributo di grandi capitali privati, che potranno poi fregiarsi del titolo di “sponsor unico dei lavori di restauro”, con tanto di esibizione del proprio logo commerciale, ma ha lasciato crollare tratti interi di Palatino e dimentica le mura aureliane, oggi una buona base per le colture di capperi. Da un punto di vista storico-artistico, Roma è una città policentrica: gli investimenti concentrati su grandi obiettivi giovano a poco, se manca la visione d’insieme.
Ancora. Il Piano di Sviluppo prevede la “rigenerazione urbana delle periferie”, mentre le ultime modifiche del piano regolatore, democraticamente approvato nel 2008, sono servite soprattutto a triplicare le cubature edificabili del quartiere di Tor Bella Monaca. Tutto a vantaggio delle solite famiglie di costruttori, poco delle casse capitoline.
Si parla di “nuovo modello di integrazione sociale”, ma non più di venti giorni fa sono stati lasciati morire in un campo abusivo a Tor Fiscale quattro bambini Rom. Un fatto gravissimo. E, come ha ribadito il Santo Padre durante l’Angelus la domenica successiva alla tragedia, si poteva fare di più. Non con misure di emergenza, da intraprendere sempre a lacrime versate, ma attraverso strumenti preventivi. Durante i miei sette anni di assessorato alle Politiche sociali avevamo pensato di agire su più fronti. E, oltre a regolarizzare da un punto di vista igienico, sanitario e abitativo i campi, chiudendone anche alcuni, abbiamo cercato una collaborazione fattiva con le famiglie Rom. Per ridurre le distanze, accompagnando ogni giorno anche questi cittadini nel cammino di partecipazione alla vita della comunità, e pretendendo da loro il rispetto di alcune regole fondamentali. Come l’obbligatorietà della scolarizzazione.
Non servono misure straordinarie ad alto impatto mediatico, ma un’attenzione costante. Senza perdere di vista quelle componenti della città che per loro natura sono meno evidenti, ma anche tra le più vulnerabili. Gli anziani ad esempio, per i quali sarebbe fondamentale prevedere strumenti come la tessera socio-sanitaria elettronica, un vero documento salvavita, da portare sempre con sé. Così come sarebbe fondamentale cercare un maggiore coinvolgimento della terza età nelle attività di volontariato, trasformando queste persone da esclusive beneficiarie a soggetti attivi degli interventi di valenza sociale. Ma anche per questo servono pianificazioni di lunga durata.
Tornando al messaggio del Presidente Napolitano, la città deve rendersi capace di affrontare le sfide della “coesione sociale, della sicurezza, dell’accoglienza”. Un obiettivo complesso, specie in questo momento: tante certezze del passato sono venute meno, pensiamo al welfare in erosione o alle “nuove” forme contrattuali che impongono ai giovani, alle famiglie, scelte di vita all’insegna della precarietà permanente. Tutto questo mentre, per citare la bella intervista di Giuseppe De Rita, la percezione diffusa è quella di «un’offerta traboccante», capace «di annullare il desiderio dell’uomo» (Sussidiario.net, 15/02/2011).
Una percezione, aggiungerei io, soprattutto rimbalzata dai media. Ma la politica deve tornare a trovare soluzioni ai veri problemi delle persone. E aiutarle a riappropriarsi della capacità di espressione delle proprie esigenze, per uscire dalla condizione di soggettività estrema e di isolamento cui una certa diffusa incultura ci sta costringendo.