Sono passati due mesi dalla morte di Mario Monicelli, ma il cognome stampigliato sul citofono della sua casa di via dei Serpenti è ancora lì. Non aveva bisogno di barriere, il maestro della commedia all’italiana: da più di vent’anni Monti era il “suo” quartiere d’elezione. Fino a pochi mesi fa, scendeva ancora tutti i giorni le scale della sua modesta abitazione, faceva un po’ di spesa, salutava gli abitanti di un rione che ricorda ancora da vicino le atmosfere scanzonate dei suoi film.
L’unico quartiere del centro di Roma dove si può ancora incontrare una vivacità popolare, erede contemporaneo dell’antica Suburra: le partite a carte del centro anziani, la collezione di fumetti del macellaio di via dei Serpenti, le chiacchiere alla bottega del barbiere, la Pasqua degli ucraini, i passi faticosi di un anziano, le botteghe artigiane, i barboni – il più “famoso”, il vecchio Angelo, irrequieto e onnipresente nella piazzetta che rappresenta il cuore del rione, se n’è andato per sempre anche lui, pochi mesi fa – i ragazzi sfaccendati, la sorpresa di un bambino che si tura le orecchie a sentire lo scoppio dei fiati della banda per la festa del quartiere.
E c’è anche Lei, la Madonna dei Monti, e la sua bella immagine duecentesca che ne percorre in processione le strade una volta all’anno, portata a spalle dalla confraternita dei monticiani, e dietro la folla della gente comune.
Alla Madonna dei Monti il laico Monicelli aveva dedicato buona parte del suo ultimo lavoro, un cammeo di venti minuti dal significativo titolo: Vicino al Colosseo c’è Monti. Dalla finestra di un balcone la si vedeva avanzare, in un lento e dolcissimo dondolio, sullo sfondo dei palazzi che hanno gli stessi colori dei tramonti romani.
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Incontrandolo, un anno fa, gli avevamo chiesto con quale sguardo avesse voluto cogliere quella processione. Monicelli ruppe a suo modo il tono inutilmente colto di quella domanda: «No, non è questione di sguardo: la processione è una processione. Basta sapere dove passa, mettersi nel punto giusto, magari in alto, su un balcone, e aspettare che arrivi». Realista, o nemmeno quello: semplicemente reale.
Anche per questo la notizia tragica del suo suicidio ci ha lasciati pensosi e perplessi. E ancora di più la retorica stoicheggiante sul “coraggio di scegliere la propria morte” che ha segnato i commenti di quei giorni. Giorni in cui dominava sui media l’immagine del grande vecchio che preferisce uscire di scena alla maniera sua. Anche lì ci sembrava che qualcuno avesse voluto imporgli uno sguardo. «Magari in alto, su un balcone», ci aveva detto. E non riuscivamo a toglierci di dosso quelle parole, che ci erano sembrate per un attimo un’inconsapevole profezia della sua tragica fine.
Poi però, guardando in tv le immagini dell’ultimo saluto dei monticiani a Monicelli, abbiamo sentito in sottofondo le campane della Madonna dei Monti. Abbiamo ripensato a quelle immagini che le aveva dedicato. E ci sono venute in mente le parole del V canto del Purgatorio, dedicato ai morti di morte violenta: quelle con cui Bonconte da Montefeltro racconta a Dante il mistero dei suoi ultimi istanti: «Quivi perdei la vista e la parola / nel nome di Maria finì, e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola».
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