I dati diffusi ieri da Unioncamere sulla congiuntura economica hanno confermato che la crisi sta colpendo in modo durissimo soprattutto le piccole imprese. Mentre i grandi sono già in ripresa, le aziende con pochi dipendenti – la spina dorsale dell’economia italiana – faticano ancora a rialzare la testa. «Il credito è difficile da ottenere; la burocrazia strangola le piccole imprese, come quelle a gestione familiare, che non riescono a star dietro a tutte le norme che esistono nel nostro paese». A parlare è Mario Baccini, presidente del Comitato nazionale per il microcredito. Un organismo che si occupa di favorire l’accesso delle aziende a prestiti di piccola entità, allentando la rigidità del sistema bancario italiano. Perché senza la piccola imprenditoria l’economia non starebbe in piedi: «Se stessimo ad aspettare le grandi imprese, faremmo in tempo a morire tutti di fame…».

Qualche mese fa il premio Nobel Mohammad Yunus ha sostenuto che in Italia è impossibile aprire una banca per il microcredito per colpa della legislazione italiana. È vero?

«Yunus è abituato al Bangladesh, con situazioni totalmente diverse da quelle italiane. Tutte le banche italiane fanno microcredito ma richiedono in larga parte garanzie reali: una persona che chiede un prestito deve avere, ad esempio, un bene immobile di valore almeno pari al credito ottenuto. Quello che noi vogliamo sostenere non è il microcredito per il consumo ma il microcredito per l’impresa. Non per pagare la bolletta della luce o la rata del mutuo, quanto per promuovere la lotta alla povertà e all’esclusione finanziaria. Guardiamo soprattutto alle fasce deboli che non hanno accesso al credito per avviare una micro-impresa, perché non hanno garanzie o perché sono in uno stato di povertà tale da rimanere escluse dal sistema finanziario».

A chi si rivolge il microcredito?

«Noi cerchiamo di individuare quelle persone – come gli ex-detenuti, gli immigrati, le donne e i giovani, chi ha avuto in precedenza uno scoperto bancario – che non avrebbero chance di ottenere credito. Facciamo un’azione capillare e mirata, perché non tutti quelli che vivono in condizione di povertà sono in grado di fare i liberi imprenditori. Individuate queste persone, le formiamo e spieghiamo loro cosa possono fare in collaborazione con le istituzioni, dalle regioni alle camere di commercio; cerchiamo poi di indicare vecchi e nuovi mestieri da sviluppare tramite la promozione del microcredito.

«Non è un’azione assistenziale: per quello ci sono la Caritas e le associazioni religiose, che lavorano benissimo. Il soggetto beneficiario deve essere fattivamente responsabilizzato come imprenditore, e la restituzione del prestito deve essere garantita. Nel nostro modello l’erogazione deve essere affiancata da una costante attività di informazione sul territorio, quella che chiamiamo financial education. Ed è un’azione che ha un costo maggiore del microcredito normale, per la formazione e l’informazione».

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Quindi le leggi per il microcredito ci sono?

 

«La legislazione c’è e c’è stata: il nostro Comitato è nato per volontà del parlamento e dei governi che si sono succeduti, per segnare una “via italiana” al microcredito e fare in modo che i vari soggetti che operano nel settore siano in grado di costituire “massa critica”. Siamo nati per promuovere, aiutare e mettere a sistema tutte le iniziative che già operano nell’ambito del microcredito.

 

«Nel 2010 la disoccupazione nel nostro paese ha raggiunto il livello record dell’8,6%. In controtendenza noi siamo riusciti a dare vita ad oltre centomila micro-aziende, in particolare nel settore dell’agricoltura e dell’autoimpiego».

 

Quindi il microcredito può essere una risposta alla crisi?

 

«Penso che sia una delle poche risposte esistenti. La crisi richiede il rafforzamento delle politiche per rilanciare l’economia nazionale. E quindi misure che si rifacciano a solidi modelli di riferimento, connessi alla vita reale. Da questo punto di vista, a mio parere, bisogna appoggiare in modo deciso e convinto il passaggio ad una economia sociale di mercato».

 

Dati recentissimi mostrano che nel Lazio le piccole imprese stanno faticando molto ad uscire dalla crisi…

 

«Le piccole imprese, nel Lazio come altrove, sono in una crisi reale. Il credito è difficile da ottenere. C’è una situazione di strangolamento burocratico, non solo per farle nascere ma soprattutto per sopravvivere. Un’impresa di non più di tre addetti o un’impresa familiare fanno fatica a stare dietro a tutte le norme che esistono oggi nel nostro paese, sia dal punto di vista fiscale che di contabilità. Il governo, su nostra proposta, sta adottando provvedimenti di semplificazione amministrativa per la nascita di nuove imprese, ad esempio con l’introduzione del silenzio-assenso. Questo può consentire la ripresa della nostra economia a partire da quelle fasce che senza il microcredito non avrebbero speranza. E nella regione Lazio, con l’assessore al Bilancio Cetica, stiamo già lavorando su questi temi».

 

La settimana scorsa Luigi Abete ha detto che la ripresa nel Lazio è frenata anche dalla piccola dimensione delle imprese. Ma dalle sue parole emerge un quadro in cui senza la piccola impresa l’economia non riparte.

 

«Partiamo da un dato: le micro-imprese in Italia rappresentano più del 94% di tutte le imprese e occupano il 48% del totale dei lavoratori. Di certo è vero che nella nostra regione c’è bisogno anche della nascita di nuove grandi imprese, ma è un problema che riguarda più le strategie degli industriali stessi che non le politiche del governo regionale. Le due cose comunque non si escludono a vicenda. Ma ringraziando Dio ci sono le micro e le piccole imprese a sostenere l’economia regionale: se stessimo ad aspettare le grandi imprese, faremmo in tempo a morire tutti di fame… Facciamo le grandi imprese, ma senza rinunciare a quelle piccole. Anche il Santo Padre, nell’enciclica Caritas in Veritate, ha citato la microfinanza come strumento fondamentale di crescita e di sviluppo umano, anche nei paesi avanzati».

 

(Lorenzo Biondi)